Dopo anni di errori da parte di tutti, il livello di sfiducia nei confronti della Grecia è tale che i partner europei continuano a trattarla come un covo di furbi e di fannulloni. Ma questa ipoteca morale impedisce di ragionare sul fatto che le resistenze di Atene sono legittime.
Questo perché le ricette economiche ordinate fin qui dalla troika (Fondo monetario, Bce e Ue) non hanno avuto successo. Sotto la pressione di un rischio di default che contagerebbe l’area euro, i partner europei chiedono ora al Governo tecnico di Lucas Papademos di ridurre i salari minimi del 20% e quelli del settore privato del 15%. Le resistenze dei partiti che sostengono Papademos sono comprensibili: tagliando i redditi nel mezzo di una recessione, l’economia del Paese rischia di andare a picco e di rendere il debito pubblico (160% del Pil) ancor meno sostenibile. Proprio come è successo finora.
Per tutta risposta Merkel e Sarkozy chiedono garanzie per i creditori prima di concedere il nuovo prestito di 130 miliardi, senza il quale a marzo Atene fallirà. Il Governo greco deve vincolare una parte dei fondi ricevuti al rimborso futuro dei creditori e deve destinare le proprie entrate prima di tutto a ripagare il debito, anziché a nuove spese. Merkel e Sarkozy vogliono evitare ricatti e cioè che, ricevuti i soldi, Atene minacci il fallimento come ha fatto in passato, o torni a indebitarsi
Nessuno può avere molta simpatia per i partiti greci. In fondo sono loro ad aver portato il Paese in queste condizioni con pratiche che noi italiani, più di chiunque altro, siamo in condizione di temere. Ma è giusto chiedersi se le strategie seguite dalla troika dal 2010 a oggi abbiano avuto qualche successo. Nel 2011 il Pil greco è sceso del 6% e la disoccupazione è arrivata al 16,5%. Ma nonostante la deflazione il recupero di competitività è minimo. Non ci sono segnali che gli investimenti stiano tornando e i 110 miliardi stanziati a più stadi dal maggio 2010 non hanno portato molto. Il disavanzo del bilancio 2011 è rimasto al 9% (l’obiettivo era il 7,5%). Non ci sono più margini per aumentare le tasse e le uniche entrate possono venire dalla lotta all’evasione, che richiede cambiamenti profondi nell’amministrazione pubblica, e da privatizzazioni che oggi non sono realistiche. L’idea che tutto si risolva in una logica di emergenza, con quella che gli americani chiamano “brinkmanship”, cioè portando la trattativa sull’orlo del baratro, è una violenza sulla razionalità e serve solo a fare le politiche sbagliate o a farle male.
La trattativa per il taglio dei crediti privati, per esempio, sta arrivando al limite. C’è un accordo perché le banche taglino i crediti nei confronti del Governo greco del 70%. Anche se si arrivasse al 99%, le analisi di sostenibilità del debito dimostrano che non basterebbe comunque. Il problema del taglio dei crediti privati è che colpisce le banche greche, ormai le uniche ad avere ancora debito greco nei portafogli. Le banche greche però non hanno abbastanza capitale per sostenere una perdita del 70% del valore dei bond e così i depositanti hanno paura e portano via i loro risparmi. Nel 2011 sono usciti dalla Grecia 32 miliardi di euro, pari al 16% del valore totale dei depositi a fine anno. Inevitabilmente il credito si riduce e l’economia non può crescere.
Tuttavia, se non si rilancia la crescita, il debito greco non sarà mai finanziabile. Il livello di crescita potenziale deve quindi aumentare sul medio termine. Per questo la troika chiede riforme strutturali per l’aumento della produttività a ogni costo. I partiti invece difendono i redditi delle famiglie perché finora le riforme strutturali non hanno dato i risultati sperati, non hanno cioè modificato gli incentivi a investire in Grecia. D’altronde, come potrebbero, in un tale clima di sfiducia?
Colpe della politica greca? Certo, alcune riforme sono rimaste atti legislativi e non sono state mai pienamente messe in atto. Ma anche se per magia il quadro normativo greco diventasse “danese”, la Grecia non sarebbe comunque in grado di sostituire il crollo della domanda interna con maggiori esportazioni (pari a solo l’8% del Pil). I prezzi interni scenderebbero e i redditi reali soffrirebbero meno, ma l’economia continuerebbe a calare.
Ci sono stati molti errori nella gestione della crisi greca. I ritardi iniziali e la fretta successiva; l’iniziale negazione del default, salvo poi chiamarlo “ristrutturazione volontaria” dei crediti privati; applicare ricette da economia “aperta”, per poi scoprire che le esportazioni non esistevano. Ora le riforme strutturali e le privatizzazioni sono indispensabili ad attrarre investitori stranieri che col tempo creino produzioni di qualche contenuto tecnologico, tali poi da essere esportate. Possiamo far finta che quello greco sia un problema etico, ma la realtà è che la Grecia è un caso straordinariamente difficile di riforme lunghe. Di ciò l’Europa deve farsi carico pazientemente, in particolare se aspira ad assistere i greci in un esercizio di sovranità condivisa e non in uno stile da podestà straniero.
Non è solo colpa della Grecia
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