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Non c’è sviluppo se bloccano i cantieri

Giù le mani dai cantieri. La decisione dell’Anas di sospendere da luglio i lavori in corso su strade e autostrade, ha una motivazione più che fondata: mancano i soldi. E, d’altra parte, l’Anas è da (troppo) tempo che ritarda i pagamenti ai fornitori, finendo per strozzare molte aziende e rallentare lavori e progetti. Ma l’unica risposta che non possiamo permetterci di dare a questo drammatico problema è proprio quella di chiudere i cantieri. Il governo deve immediatamente intervenire, perché è del tutto evidente che l’unica voce di spesa che non solo non possiamo comprimere, ma che al contrario dobbiamo incrementare è quella relativi agli investimenti per la manutenzione e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno e per lo sviluppo della rete infrastrutturale. La questione è stata per troppo tempo oggetto di rimpalli di responsabilità politiche che si sono subito riaffacciati non appena l’Anas ha annunciato di “gettare la spugna” perché ora non si assumano in modo celere e risoluto i provvedimenti necessari. Sappiamo che il ministro Padoa-Schioppa ha posto, in modo brutale ma efficace, il problema del risanamento dei conti pubblici, in particolare dal lato della spesa. Ma proprio perché ha scelto giustamente di agire sul piano strutturale, sarà il primo a convenire che quelle sono proprio le spese da non mettere in discussione, anzi da finanziare con i tagli apportati alle spese improduttive. E che, nel perdurante declino italiano, le infrastrutture rappresentino la priorità delle priorità, ormai lo sanno anche i molti militanti del trasversalissimo partito del “no a tutto”, pur ostinandosi a ignorarlo. Anzitutto perché il comparto sconta un gap significativo (pari a circa il 50%) rispetto alla media europea, e poi perché allo stato attuale presenta una pesante strozzatura dal punto di vista della capacità di offerta del nostro sistema produttivo. Il mancato sviluppo di strade, autostrade e ferrovie, infatti, taglia le gambe alla crescita nazionale. Secondo le recenti analisi di Mediobanca, al Centro-Nord, dove si concentra il maggior numero di piccole e medie imprese, si assiste a un fenomeno di “intasamento” delle attività produttive, che peggiora lungo la dorsale appenninica. Al Sud, poi, si paga a caro prezzo la mancanza di arterie autostradali e ferroviarie, con una conseguente diffusione limitata delle aziende. Va sottolineato, poi, che il costo eccessivo della mobilità interdisciplinare delle persone e delle merci è pari a due punti di pil e, peggio ancora, supera del 40% quello della media Ue. Ciò significa che in questi decenni i governi hanno operato sulla dotazione infrastrutturale del Paese poco e male, mentre si sarebbe dovuto investire non solo per rammodernare il sistema, ma anche per una ragione squisitamente economica, visto che le infrastrutture, per loro natura a basso contenuto di importazioni, producono un’effettiva crescita del pil, perché i relativi costi non pesano sulla bilancia dei pagamenti. Dove trovare i soldi? In una situazione in cui ben l’80% della spesa in conto capitale è gestita dagli enti locali, la soluzione più ragionevole sarebbe quella di eliminare di colpo l’eccessiva ramificazione della spesa connessa all’eccesso di localismo che abbiamo introdotto nel nostro sistema istituzionale, istituendo un “fondo unico nazionale” che indichi chiaramente le priorità. Sembra assurdo, infatti, che i soldi per la costruzione di piazze, mercati e fontanelle ci siano sempre, mentre gli 11,6 miliardi di euro chiesti da Di Pietro per le esigenze di cassa di Anas e Ferrovie del 2006, sono introvabili. L’operazione “fondo unico di spesa” sarebbe a costo zero. E in caso le risorse non fossero sufficienti, si potrebbero introdurre strumenti innovativi quali le imposte di scopo (ultima frontiera del diritto tributario). Prelievi fiscali ad hoc che, da un lato, responsabilizzerebbero direttamente i cittadini, dall’altro, garantirebbero piena trasparenza e controllabilità. Sono proposte, naturalmente. Ma discutiamone, e poi decidiamo. Una sola cosa è certa: non possiamo permetterci di chiudere i cantieri.

Fonte: Il Messaggero del 24 giugno 2006

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