di Salvatore Zecchini
L’aspettativa del governo è che in virtù dei nuovi sostegni ai redditi si materializzi sul mercato una domanda di dimensioni tali da ritornare ai ritmi pre-Covid, sollecitando la risposta del sistema produttivo. Tutti i nodi da sciogliere del decreto nell’analisi di Salvatore Zecchini, docente ed economista all’Università di Tor Vergata
Il decreto Rilancio con i suoi 343 articoli sta per tagliare il traguardo dell’approvazione parlamentare, ma rimangono irrisolti cruciali interrogativi sulla sua piena rispondenza agli intenti. I suoi interventi per 55 miliardi si prefiggono di dare slancio alla crescita economica dopo il crollo, sostenendo i redditi di famiglie ed imprese, falcidiati dalle restrizioni dovute alla diffusione del Covid, e utilizzando la spesa pubblica in disavanzo e il ricorso al mercato finanziario per accelerare l’attuazione di importanti investimenti pubblici.
Non si sciolgono tuttavia alcuni nodi critici, in particolare su tre punti: a) quali siano le sorgenti della rinnovata espansione economica e non tanto del naturale rimbalzo delle attività produttive che di solito segue la rimozione del blocco; b) quali siano i tempi di attuazione delle misure per ottenere senza lunghi ritardi il rilancio della crescita; e c) quale sia la sostenibilità nel tempo di un bilancio pubblico che continua ad accumulare anno dopo anno disavanzi, finora coperti per l’intervento diretto ed indiretto della Bce.
L’aspettativa del governo è che in virtù dei nuovi sostegni ai redditi si materializzi sul mercato una domanda di dimensioni tali da ritornare ai ritmi pre-Covid, sollecitando la risposta del sistema produttivo. Purtroppo, la realtà mostra un cambiamento sostanziale negli schemi di spesa delle famiglie e di riflesso delle imprese. Le prime dedicano più risorse all’acquisto di prodotti volti a prevenire il contagio e tendono a frenare gli altri consumi, specialmente l’acquisto di beni durevoli, accrescendo i risparmi. I dati più recenti confermano questa tendenza: secondo l’Istat, nel primo trimestre il reddito disponibile delle famiglie è diminuito dell’1,6% rispetto al periodo precedente e la propensione al risparmio è salita di 4,6 punti percentuali, portandosi al 12,5%, non diversamente da quanto sta avvenendo in altre economie europee. Questo atteggiamento non sorprende perché siamo in una fase di accentuata incertezza sulle prospettive reddituali di lavoratori ed investitori, con riduzioni dei livelli occupazionali e poca certezza di un ritorno al lavoro per coloro che non dispongono di contratti a tempo indeterminato.
Dal lato delle imprese altrettanta prudenza dettata dalla scarsità di domanda in diversi comparti, nonché dal non voluto accumulo di scorte e di invenduto nei mesi del blocco. La presenza, inoltre, di nuovi focolai di contagio e le conseguenti limitate restrizioni non aiutano a migliorare le aspettative. Se alcune imprese attualmente investono, è per ammodernare i processi produttivi, incrementare efficienza e produttività, fare maggior ricorso ad automazione e digitalizzazione più che espandere capacità di produzione di beni e servizi perché incontrerebbero nel breve periodo insufficienti sbocchi di mercato. Mentre l’innovazione nelle startup dà segni di ripresa, il loro contributo all’occupazione appare ancora esiguo. Anche la domanda estera stenta a riprendersi in quanto in molti Paesi si riscontrano debolezze della domanda simili a quelle italiane e tendenze a preferire le loro produzioni.
In queste condizioni, chi dovrebbe aumentare la domanda? Se sovvenzioni ai redditi, incentivi agli investimenti, costo del denaro mai su livelli così bassi, e nuove aperture dei canali del credito non bastano a dare una spinta a un rapido ritorno della domanda e quindi della crescita, è il soggetto pubblico che è chiamato ad intervenire con la sua spesa diretta, piuttosto che indirettamente attraverso contributi a fondo perduto e garanzie. Ma quale tipo di spesa? Quella corrente ha continuato a dilatarsi negli anni scorsi, senza riuscire a innescare una crescita duratura. Considerato che quella per investimenti in opere pubbliche, tra cui quelli per infrastrutture, ha conosciuto un grave ridimensionamento nel quinquennio scorso, attualmente il governo ha puntato a un’accelerazione, contando su progetti già avviati. Il percorso non è tuttavia agevole: molte opere non servono a migliorare la competitività del sistema produttivo; la carenza di progetti validi è una costante; la domanda pubblica di prodotti innovativi è insignificante; e i tempi di esecuzione dei progetti si allungano per i contenziosi legali e la lentezza delle procedure amministrative.
La dimensione temporale solleva interrogativi ancor più estesi, ovvero sulla rapidità d’esecuzione dell’insieme di interventi del decreto Rilancio. Si è calcolato che soltanto per il loro avvio ad esecuzione si richiederebbero ben 148 provvedimenti attuativi, che l’esperienza passata non induce a ritenere di emanazione rapida. L’assegnazione dei lavori assorbe un tempo spesso più esteso di quello della loro realizzazione. Il rischio di ricorsi in sede giudiziaria è sempre elevato. E al completamento delle opere seguono ritardi consistenti nel pagamento, che vanno oltre le norme e le direttive comunitarie. Su tutti questi momenti incombono la complessità delle procedure in termini di numero di atti e di loro intreccio, la capacità della Pubblica amministrazione di svolgere appropriate valutazioni sulla economicità dei progetti e la sua efficienza nelle decisioni e nel monitoraggio della fase esecutiva. A questi problemi tenta di dare una soluzione da ultimo il decreto “Semplificazioni”, ma dalle notizie che si hanno sembra che si tratti di snellimenti di portata limitata perché devono mantenersi entro un perimetro di autorizzazioni, controlli, concertazioni e contrastanti esigenze che promanano dal ridondante sistema di istituzioni coinvolte.
Su queste manovre di politica economica, come sulle successive, incombe pur sempre il problema della sostenibilità del debito pubblico in rapporto alla crescita, rapporto che è atteso raggiungere quest’anno il 155,7% del Pil, secondo la Banca d’Italia, rispetto al 134,8% nel 2019. Da un livello così elevato dovrebbe scendere modestamente al 152,7% l’anno prossimo, nonostante l’atteso ritorno della crescita. Su queste cifre aleggiano margini di incertezza perché la Commissione Europea nelle sue previsioni di primavera segnala livelli ancora più elevati per il biennio 2020-2021, mentre il governo nel DEF2020 presenta livelli più bassi. In ultima istanza, la sostenibilità del debito nei prossimi anni dipenderà essenzialmente da due fattori: la politica di accomodamento della Bce, che servirà a tranquillizzare i mercati finanziari, e la capacità del Paese di sviluppare la sua economia a ritmi nettamente superiori a quanto visto nell’ultimo ventennio, azzerando nel contempo i disavanzi strutturali di bilancio e generando surplus primari tali da assicurare su base pluriennale uno sgonfiamento del debito pubblico. Attualmente, invece, la sostenibilità è nelle mani della Bce e della benevolenza dei mercati, ma quest’ultima può svanire ai primi segni di peggioramento delle politiche economiche.
Per migliorare le prospettive future il Paese ha bisogno di ridurre questa dipendenza con un piano pluriennale di rientro del debito e lo può realizzare soltanto attraverso una strategia di crescita basata su profonde riforme di sistema, che diano slancio all’imprenditoria e all’innovazione, abbattano le rigidità nel funzionamento dei mercati, risveglino l’attivismo nella società e ammodernino la governance del sistema-Paese. Sperare in questo cambiamento non è sognare.