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Niente da fare per le mini tasse di Google

Fisco non armonizzato. I giganti del web aggirano le imposte sul reddito. L’Ue non ha potere, gli stati non lo usano. E miliardi di gettito sfuggono agli erari..
Durante la cena di lancio del semestre di presidenza europea, lo scorso gennaio al Castello di Dublino, il ministro irlandese del Commercio Joe Costello lo ha definito con convinzione «un problema da affrontare». Ce l’aveva con le imprese del commercio online che pagano meno tasse di quanto dovrebbero, che vendono merci e servizi in un paese e versano (poche) imposte in un altro, sia esso il Lussemburgo o la stessa Irlanda. Sfruttano le pieghe e la competizione fra sistemi fiscali, sbaragliando gli avversari e aggirando il Fisco. «E’ un comportamento legale – sottolineò il politico laburista -, ma non mi pare tanto etico»
L’idea è morta lì, i sei mesi irlandesi sono volati senza che il dossier fosse evocato, del resto la dichiarazione apparsa su questo giornale risulta aver provocato qualche grattacapo a Costello, rimproverato dal suo ministro delle Finanze per una pensiero personale e fuori delle sue competenze. Messaggio chiaro. Dublino, caso non unico, non intende rinunciare ai benefici di una tassa societaria al 12,5%, che magari non offre gettito da nababbi, ma garantisce salari altrimenti insperabili. In questo modo attira i big tecnologici e le imprese che Londra pela al 23% e Parigi al 36,1. Ci perde pure l’Italia, con imposte non altissime (27,5), ma costi burocratici sempre scoraggianti.
Per Google è una festa. Nel 2012 ha fatturato nel Regno Unito per 3,2 miliardi di sterline, somma che, passando attraverso i tremila addetti della casa madre europea con sede in Irlanda, ha portato nei forzieri dell’Erario appena 6 milioni di pound, lo 0,18% del giro d’affari. Questo è possibile perché gli inglesi che acquistano un servizio dalla casa di Mountain View trattano direttamente con gli isolani loro ex sudditi. E’ la stessa tecnica che adottano Facebook, Apple e Amazon. Senza dimenticare che Starbucks ha fatto storia perché coi 700 negozi in Gran Bretagna ha prodotto introiti per 630 milioni di sterline senza versare un solo penny nel tesoro di Sua Maestà.
Nei comunicato del G8 e del G20 le chiamano «strategie fiscali aggressive». Non violano la legge, la dribblano. I padri fondatori dell’Ue hanno lasciato fuori dai Trattati la possibilità di armonizzare l’imposizione diretta, a meno che non metta a rischio il mercato interno. La Commissione ci ha provato a quattro volte sino a che, nel 1990, ha lasciato il discorso alle capitali e nulla è più successo. Salvo qualche stranezza contabile.
Nel 2012 Google Italy ha realizzato 52 milioni di ricavi con un utile di 2,5 milioni, somma in proporzione assai inferiore rispetto alla holding Usa (14 miliardi di ricavi nel primo quarto, 3,3 di utili). Come conseguenza ha girato alle Finanze 1,8 milioni di imposte. «Usiamo gli incentivi e rispettiamo la legge – precisa il gruppo – Se ai politici non va, hanno il potere di cambiare».
Il problema è in effetti normativo. E globale. In autunno il governo Monti ha annunciato una verifica straordinaria della Guardia di Finanza sulla filiale nostrana di Google, dopo che una precedente ispezione aveva rilevato redditi non dichiarati nel 2002-2006 per 240 milioni (risparmio: 70 milioni di tasse). In giugno, dopo che s’è saputo che Apple aveva fatto sparire 100 miliardi in Irlanda, i leader del G8 hanno chiesto norme decise per evitare il turismo fiscale. Ieri il G20 di Mosca ha varato un piano di 15 misure antielusione, dandosi 48 mesi per realizzarlo. Nonostante la crisi e la voglia manifesta di etica, sembra davvero poco tempo. Così Google e le altre possono continuare a guadagnare con lo slalom normativo. Almeno per qualche anno ancora.

Fonte: La Stampa del 21 luglio 2013

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