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Nella lotta per il petrolio l’italia rischia di più

Dai pozzi petroliferi libici, ormai, non fuoriescono che 400mila barili di greggio al giorno, o forse meno, contro gli 1,58 milioni di febbraio e gli 1,385 milioni dell’inizio di marzo. Gli ultimi tecnici e gli altri dipendenti delle compagnie straniere stanno abbandonando il Paese: l’Eni, ad esempio, ha concluso le operazioni di rimpatrio del personale.
L’incertezza sull’impatto della crisi libica sui mercati internazionali del petrolio è massima, anche perchè alla guerra nel Mediterraneo si aggiungono le domande sulle necessità energetiche del Giappone dopo il terremoto e la distruzione dell’impianto nucleare di Fukushima. Venerdì, dopo l’annuncio (vero o falso che fosse) del cessate il fuoco da parte delle truppe fedeli a Gheddafi, i prezzi del greggio sono scesi a 113,93 dollari il Brent a Londra ed a 101,07 il Wti a New York. Le tensioni legate all’attacco aereo su Tripoli potrebbero riportare i prezzi a livelli più elevati, anche se le reazioni dei mercati non sempre sono scontate.
Questa la situazione fotografata a 24 ore dall’inizio dell’attacco. Ne discuteranno oggi a Bruxelles i ministri dell’Energia, per l’Italia Paolo Romani, insieme con le azioni da intraprendere per la sicurezza degli impianti nucleari europei. É una guerra per il petrolio, quella che si combatte sulle coste libiche? Molti si pongono questa domanda, anche in Italia. Certo, il greggio della Libia è tanto, e naturalmente fa gola. Secondo la National Oil Company di Tripoli, la Libia possiede le più veste riserve petrolifere dell’intera Africa, valutate in 42 miliardi di barili, oltre a 1,3 trilioni (migliaia di miliardi) di metri cubi di gas. Solo il 25 per cento del territorio libico è stato esplorato, ed è verosimile che vengano trovati nuovi giacimenti. La Libia è il maggior fornitore di petrolio per l’Europa, e il quarto produttore in Africa dopo Nigeria, Algeria e Angola e il quarto fornitore di gas del continente. Nel Paese sono presenti circa 50 compagnie petrolifere: in quaranta hanno partecipato a gare per l’assegnazione dei diritti di esplorazione. Prima della crisi, la compagnia petrolifera di Stato prevedeva di spendere circa 10 miliardi di dollari nel prossimo triennio per incrementare la produzione. Insomma, la Libia è una sorta di «paradiso» energetico.
Per l’Italia Tripoli rappresenta il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas. In Libia fin dai tempi di Enrico Mattei, l’Eni è il principale operatore estero nell’estrazione di petrolio e gas, con circa 6 milioni di tonnellate di greggio all’anno. Dalla Libia l’Italia importa 18 milioni di tonnellate di greggio e grazie al gasdotto Green Stream, inaugurato nel 2004, arrivano nel nostro Paese 8 miliardi di metri cubi di gas, cifra che avrebbe dovuto salire a 11 miliardi nel 2011. Il gas libico copre il 12 per cento del fabbisogno italiano. Cifre che confermano l’importanza strategica delle forniture libiche per l’economia italiana. La britannica BP, che non produce nè petrolio nè gas in Libia, si stava preparando a incominciare una serie di esplorazioni nella parte occidentale del Paese, che tuttavia ha dovuto sospendere. Situazione simile per la Royal Dutch Shell, che laggiù non produce, ma esplora. Sospesa, infine, la produzione della francese Total, pari a 55 mila barili al giorno.
Ieri, alla Nazioni Unite, l’Italia ha annunciato formalmente il congelamento di beni di Gheddafi o altre entità libiche per circa sei-sette miliardi di euro, in attuazione della risoluzione 1973 dell’Onu. Si tratta di una cifra ancora provvisoria, «soggetta a ulteriori verifiche da parte del comitato per la sicurezza finanziaria» guidato dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Le partecipazioni libiche più rilevanti nel nostro Paese riguardano Unicredit, Finmeccanica, Impregilo e la Juventus. Partecipazioni minori risultano in Eni e Telecom. L’Italia è il primo esportatore verso la Libia, e sono presenti nel paese oltre cento nostre imprese. L’interscambo 2010 è stato pari a 12 miliardi di euro. Insomma, il rischio economico della guerra per noi è molto alto.

Fonte: Il Giornale del 21 marzo 2011

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