Per la prima volta da due anni a questa parte l’Europa sembra più severa dell’America in materia di costo del denaro e lotta all’inflazione: la Bce ha infatti lasciato capire che l’aumento dei tassi deciso ieri, il quarto in otto mesi, sarà seguito da ulteriori interventi (probabilmente due) entro la fine del 2006. Negli Stati Uniti, invece, la Federal Reserve potrebbe anche decidere, nella riunione di martedì prossimo, di sospendere per un po’ gli aumenti del costo del denaro dopo i 17 interventi consecutivi degli ultimi due anni. Non è detto che le cose vadano in questo modo: Ben Bernanke, il capo della Fed, aveva giudicato opportuna una pausa per non penalizzare un’economia già in fase di rallentamento, parlando di recente davanti al Congresso. Poi, però, sono arrivati altri dati negativi sull’inflazione che, anche depurata dall’effetto petrolio, sta crescendo troppo, più che in Europa. Ma anche se la Fed ritoccasse ancora una volta i tassi (decisivi, forse, i dati sull’occupazione Usa che verranno pubblicati oggi), difficilmente, poi, imporrebbe nuovi inasprimenti dopo l’estate.
Allora è la Bce che è diventata troppo rigorosa? Ha ragione chi considera il suo presidente, Jean-Claude Trichet, un gelido monetarista poco interessato alla crescita economica? In realtà, nonostante gli inviti del Fondo monetario internazionale a seguire una linea più accomodante, la banca di Francoforte non aveva molti margini di manovra, visto le nuove tensioni sui prezzi, i due anni di rialzi degli interessi Usa e la recente mossa della Banca centrale del Giappone che ha interrotto una politica del «tasso zero» durata quasi un quarto di secolo.
Se nei prossimi giorni la Fed si mostrerà più accomodante della Bce, ciò non dipenderà da una mancanza di sintonia tra Bernanke e Trichet ma dalle difficoltà dell’economia americana che – per la prima volta da molti anni – potrebbe crescere l’anno prossimo meno di quella europea. Non è ancora il caso di fasciarsi la testa, ma in America autorevoli economisti (come Nouriel Rubini, quello che al Forum di Davos si scontrò con Tremonti) cominciano a evocare lo spettro della stagflazione , micidiale cocktail fatto di prezzi che si impennano nonostante la stagnazione dell’economia.
Nulla va dato per scontato: due anni fa gli economisti temevano di essere alla vigilia di un periodo di deflazione, ma poi le cose sono andate in tutt’altra direzione. Stavolta, però, i segni di un rallentamento dell’America ci sono tutti: non solo il dimezzamento della crescita dell’ultimo trimestre, ma anche il forte calo degli investimenti e una contrazione dei consumi delle famiglie probabilmente destinata a durare, visto che la diminuzione dei valori immobiliari riduce l’effetto ricchezza.
Cosa significa tutto questo per noi? Che l’economia americana – sia essa in una fase di rallentamento o si stia fermando – non sarà più, per un bel po’ di tempo, la «locomotiva» che, assieme a quella asiatica, ci ha tirato fuori dalla crescita zero.
Dovremo fare da soli, cercando di riattivare anche al nostro interno i meccanismi dello sviluppo. Tassi più alti di certo non aiutano ma, entro certi limiti, possono essere un ostacolo non insormontabile. Per capire qual è il limite da non valicare va studiata l’esperienza degli Usa che per molto tempo hanno continuato a crescere a ritmi sostenuti nonostante il continuo aumento del costo del denaro.
Ma, poi, la resa dei conti è arrivata.
Per l’Italia ci sono due difficoltà in più: l’elevato debito pubblico e la bassissima crescita della produttività. L’aumento dei tassi drenerà altre risorse non solo dalle tasche delle famiglie ma anche dalle casse dello Stato mentre, in una situazione in cui l’allarme-inflazione rimane massimo, si potrà ridistribuire ricchezza solo a fronte di un aumento effettivo della produttività.
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