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Mille e una manovra

Ancor più della certezza che dovremo pagare molte tasse in più, disturba la fervida inventiva che quasi ogni ora ci fa intravedere nuove varianti per pagarle. Già era arduo trovare una logica unitaria nella manovra di Ferragosto; ma si poteva accogliere la scusa della fretta. Ora i giorni passano, e la confusione cresce. Sì, la manovra – a differenza di quella di luglio, approvata quasi a scatola chiusa – si può modificare, si può migliorare. Con quale disegno, però?
Né all’interno della maggioranza, né tra le principali forze di opposizione, si mette in dubbio che uno sforzo pesante si debba fare. Parrebbe il presupposto giusto per discutere in modo razionale. Invece sta accadendo tutt’altro. Ai livelli alti della coalizione di governo, si discute su quali misure possono far perdere meno voti alle prossime elezioni; con opinioni diverse tra la Lega e il Pdl, e disparate all’interno del Pdl stesso. Nelle file della maggioranza, si affaccendano tutti quelli che vogliono risparmiare oneri ai gruppi di interesse a cui sono legati, scaricandoli altrove.
Per nessuna delle due vie si giunge al disegno che, a parole, sarebbe condiviso da tutti: rimettere in equilibrio il bilancio dello Stato con il minor effetto possibile sulla crescita economica; e anzi rinnovando, aprendo nuove prospettive. Nel contrapporre una ipotesi a un’altra, per lo più si dimentica che la situazione è abbastanza grave da rendere necessari sacrifici ovunque. Non è possibile esentare né «i lavoratori» né «i ceti medi», categorie la cui estensione dipende dal significato che gli si vuole dare, tanto meno «le famiglie» perché siamo tutti noi; e così via.
Ogni aggiustamento di bilancio per necessità mescola misure una tantum con misure di medio periodo. Nel discuterne il dosaggio, meglio non dimenticare che i provvedimenti capaci di assicurare un equilibrio duraturo nel tempo danno certezze con costi minori. Ad esempio, mandare la gente in pensione più tardi, modificando le norme sull’anzianità, assicura sulla sostenibilità del sistema previdenziale; vale assai più di un tributo una tantum di pari importo. Se le resistenze sono forti, si capisca perché: uno sguardo alla realtà – lavoratori manuali ansiosi di riposo già a 60 anni, lavoratori intellettuali attaccati al tavolo anche a 70 – suggerisce soluzioni flessibili.
Dato che la confusione c’è, inutile seguitare a deprecarla. Meglio cercare di cogliere le verità che ne sono emerse. L’aumento dell’Iva era già nei piani del governo, implicito nella manovra di luglio; soltanto, lo si voleva rimandare a dopo le elezioni. Si può benissimo decidere di adottarlo subito, purché non serva a giustificare minori tagli di spesa in certi settori che protestano.
Siamo in un momento che impone scelte severe. Tuttavia le crisi economiche offrono alla politica anche un vantaggio, se vuole coglierlo: le ragioni dell’equità e quelle dell’efficienza, entrambe necessarie per governare, sono assai meno contrapposte rispetto ai tempi normali. Se si vuole fare ripartire l’economia, occorre mobilitare le risorse inutilizzate per privilegio di pochi: sfrondare gli sprechi pubblici, colpire rendite che intralciano il mercato, tassare patrimoni non impiegati per la produzione.
E’ancor più utile dare questo segno in un Paese come l’Italia, che già da prima tendeva a rifugiarsi nella «roba» – nei soldi messi da parte, nelle case – di fronte ai figli precari, agli stipendi stagnanti, all’intraprendenza intralciata, al merito irriso dalle raccomandazioni. Tra l’altro, la «roba» di molti evasori è meno ignota al fisco dei loro redditi. Sta ai governanti essere meno pessimisti di Machiavelli, secondo il quale «li uomini sdimenticano piú presto la morte del padre che la perdita del patrimonio».

Fonte: La Stampa del 26 agosto 2011

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