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Meglio ripetizioni UE che voti dal mercato

Sono 33 le false verità sull’Europa, recita il titolo del libro di Lorenzo Bini Smaghi, uno dei numerosi che, elezioni propiziando, stanno uscendo sul tema. Sono però 30 anche gli anni da che “ il tasso medio di crescita italiana sta declinando”: se continua così, “fidarsi di un Paese con un debito troppo grande per essere salvato e per non trascinare il resto d’Europa nella propria instabilità” più che “problematico”, come scriveva Carlo Bastasin l’11 Aprile su queste pagine, diventa impossibile. Il sogno europeo della ever closer union è un obiettivo, non un’assicurazione, un impegno a raggiungere i primi, non a salvare gli ultimi. Uscire dall’euro è consentito dall’art. 50 di Maastricht ma comporterebbe essere lasciati soli al giudizio dei mercati: non ci andrebbe molto ad accorgersi che è meglio prendere ripetizioni da Bruxelles che i voti da loro.

Molti libri, poche ricette. Avanzo una proposta: eliminiamo dal dibattito parole tipo austerità e solidarietà, riferimenti alle rigidità intellettuali dei tedeschi e alla polisemia di Schuld. Si rinuncia a una piccola soddisfazione, ma si evita di fornire argomenti agli anti-europeisti: ne vale la pena. Dalle elezioni, quelle che contano, escono i governanti, e rispondono ai loro eletti di come usano le risorse: queste, è bene non dimenticarlo mai, non sono dello stato ma degli elettori. Quelli tedeschi, quando leggono eurobond, sanno che equivale a usarle, queste loro risorse, o direttamente o come garanzia: possono accettarlo per evitare il collasso dell’euro, non per consentire di traccheggiare nell’eliminare le cause per cui vengono richiesti, sanno di avere dalla loro i testi dei trattati europei e la loro Costituzione. Che il soft power con cui alla Germania viene chiesto di prendere la leadership dell’Europa voglia dire hard money, lo capiscono subito, capiscono meno cosa significhi leadership. Perché chi ce l’ha, deve esercitarla: finché si tratta di gestire Pompei, vada; ma ottenere che le ASL paghino i fornitori a 60 giorni, no grazie. L’Italia è un Paese non solo “troppo grande per essere salvato”, ma anche troppo difficile per essere gestito. Chi può pensare che la Troika riesca a fare nel Mezzogiorno quello che non siamo stati capaci di fare noi in 150 anni e con uno dei più grandi (riferito al PIL) trasferimenti di ricchezza che si ricordino? E poi, guardiamoci negli occhi, se loro son perplessi a prendere la leadership, dobbiamo proprio lamentarcene?

Anche per gli elettori tedeschi potrebbe essere vantaggioso che la Germania trovasse un equilibrio a un livello diverso, investendo più a casa propria, accettando un’inflazione più elevata: le misure prese dal Governo di coalizione vanno già in questa direzione, difficile sapere se bastino e in quando tempo abbiano effetto. L’euro si indebolirebbe sul dollaro, se ne avvantaggerebbero le nostre aziende esportatrici: che i maggiori profitti li reinvestano in Italia è tutto da vedere, che quanto importiamo diventi subito più caro è invece sicuro.

Eliminiamo dunque dal discorso parole come austerità e solidarietà. Che vuol dire chiedere meno austerità? Poter sforare il limite del deficit di una frazione di punto per un anno, sperando negli effetti keynesiani sulla crescita? Perfino nella dottrina keynesiana è nei momenti di crescita che vanno introdotte le misure di austerità e attualmente siamo in una fase di crescita dell’economia mondiale. Perfino il sixpack, stando allo studio di un ricercatore dell’Istat, potrebbe essere dieci volte meno gravoso di quanto finora ipotizzato, sì da non dover neppure chiedere il rilassamento dei termini. C’è il nostro immenso debito, l’onere degli interessi, il rischio che aumentino i tassi: ma non ha senso tagliare il debito con una patrimoniale senza avere prima tagliato alla radice le cause che quel debito hanno prodotto; e se quelle cause saranno rimosse, diventerà inutile la patrimoniale che lo tagli. E comunque, perché dovrebbero pagarla tedeschi e finlandesi?

Chiediamo più solidarietà: ma noi, quanto a diritto del lavoro, non vogliamo eliminare un fossile quale l’art. 18; quanto a sistema giudiziario, restano tabù la separazione delle carriere dei magistrati e la riforma del CSM; quanto a privatizzazioni, ci teniamo le municipalizzate, e le Poste non le spacchettiamo e le consegniamo tutte intere ai sindacati. Certo, non son cose da nulla, ma sono nulla di fronte ai costi di un’uscita dall’euro.

Altro che più Europa! Il deficit politico è a livello stati: lo è anche in Germania, dove è per l’opposizione delle politiche locali se l’unione bancaria e il meccanismo di risoluzione han finito per essere così deboli e così lontani. Lo dimostra il caso stesso della BCE; se essa è, come scrivono Alessandro Barbera e Stefano Feltri (La notte dell’euro, Rizzoli), “l’istituzione più reattiva ed efficace […] quella su cui meno pesano le pressioni nazionali” è proprio perché l’euro è una moneta senza patria.

Nella politica nostra sta il nostro problema, austerità e solidarietà sono alibi. Se ci si propone una riforma al mese, è chiaro da riformare è il funzionamento dello Stato. Solo la politica nazionale lo può fare. La metafisica europeista può essere sfondo e vincolo, ma gli attori siamo noi, noi e i politici che mandiamo nel nostro Parlamento. La mancanza della politica è durata troppo a lungo: poteva farcela Berlusconi, ma non è stato una Thatcher; Prodi alcune cose le ha fatte (compreso entrare nell’euro), ma non è stato uno Schroeder; non potevano farcela i girotondi, non ce l’hanno fatta i Governi tecnici. Adesso abbiamo Renzi.

Fonte: Il Sole 24 Ore - 22 Aprile 2014

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