• martedì , 24 Dicembre 2024

Mediobanca, scontro finale

MARCO PANARA

Come ogni declino anche quello delle Generali mette tristezza. In
più fa rabbia, perché non è frutto di una debolezza intrinseca
della compagnia ma è la conseguenza dei comportamenti e delle
scelte del suo azionista di riferimento, Mediobanca. Infine
preoccupa, perché le Generali sono il più importante e il più
internazionale gruppo finanziario italiano. Il suo itinerario
ricalca quello della Comit dalla privatizzazione in poi, con gli
amministratori delegati che cambiavano ogni volta che per una
ragione o per l’ altra dicevano no a una richiesta di Mediobanca.
La malattia delle Generali di oggi è la stessa della Comit di
allora: eterodirezione. Vertici deboli, decisioni prese altrove
(in piazzetta Cuccia), assenza di visione strategica e di spirito
imprenditoriale, progressiva perdita di iniziativa e di peso nel
sistema.
La Comit sappiamo come è andata a
finire: era la migliore tra le grandi banche italiane e ha finito
per essere comprata da Banca Intesa. L’ esito della vicenda delle
Generali non lo conosciamo ancora, ma è evidente che la compagnia
è oggi più debole di cinque anni fa. D’ altra parte, rabbia,
tristezza e preoccupazioni a parte, non ci dobbiamo stupire,
perché tra le tante capacità di Mediobanca non c’ è quella di far
crescere le aziende. Tutte le imprese sulle quali ha esercitato la
sua preminente influenza sono oggi più deboli di ieri: la Comit è
stata assorbita da Banca Intesa, Montedison è scomparsa, Hdp ha
dilapidato centinaia di miliardi e da grande polo dell’ editoria e
della moda si è ristretta alla sola editoria; le Generali, dopo
aver cambiato quattro presidenti in quattro anni, sono ora
affidate a un presidente ottantenne e a due amministratori
delegati quarantenni, certamente volenterosi ma che a nessuno
viene in mente di paragonare a un Passera o a un Profumo.
Le
ragioni di tutto ciò sono state dette e ridette: la cultura di
Mediobanca, da sempre, ha avuto al centro il controllo del sistema
e non il suo sviluppo. Da quando con l’ apertura dei mercati il
sistema è diventato dinamico, quella cultura ha determinato l’
indebolimento dei soggetti sui quali esercitava la sua
determinante influenza. Quello che è successo giovedì scorso nel
consiglio di amministrazione delle Generali è un pezzo di tutto
ciò, e però segnala l’ avvicinarsi drammatico di un momento di
svolta o di rottura. L’ amministratore delegato di Mediobanca
Vincenzo Maranghi ha imposto le dimissioni del presidente Gutty e
la sua sostituzione con il vicepresidente Antoine Bernheim (che lo
stesso Maranghi aveva cacciato dalla presidenza delle Generali tre
anni fa), e lo ha fatto andando contro la volontà dei principali
azionisti di Mediobanca, e cioè Unicredito e Capitalia, e contro
la volontà anche del secondo azionista delle Generali, ovvero la
Banca d’ Italia.
I conti delle Generali non sono buoni, l’
andamento del titolo men che meno, ma la sostituzione di Gutty non
segnala in alcun modo un cambiamento di linea gestionale. Per
intenderci, non arriva a sostituirlo il grande manager al quale
affidare il rilancio della compagnia, bensì una vecchia conoscenza
che quello che managerialmente poteva dare lo ha già dato un bel
po’ di tempo fa. Il dimissionamento di Gutty è stato quindi un
atto di forza e allo stesso tempo un gesto di rottura. Perché
Maranghi lo ha fatto? Entrare nella sua testa è difficile, ma si
possono mettere in fila i fatti. Il primo è la promessa fatta da
Maranghi a Bernheim e al di lui pupillo Bollorè (un raider
francese che negli ultimi due anni ha investito molti denari in
Mediobanca per sostenere Maranghi) di riportare Bernheim al
vertice delle Generali. Ma questa è solo la parte sentimentale –
si fa per dire – della vicenda.
La parte sostanziale è un’ altra:
è quello che sta avvenendo tra gli azionisti di Mediobanca. Dalla
morte di Cuccia, avvenuta poco più di due anni fa, Maranghi è
riuscito a fare più o meno quello che ha voluto grazie al fatto
che i due principali azionisti dell’ istituto, Unicredito e Banca
di Roma (ora Capitalia), erano l’ uno contro l’ altro armati. Su
questa contrapposizione Maranghi ha giocato con la consueta
abilità, riuscendo ad evitare sia nell’ autunno di due anni fa che
in quello dell’ anno scorso di farsi mettere sulla testa un
presidente che garantisse gli azionisti e mettesse lui sotto
controllo: in tutti e due i casi non si è proceduto perché Banca
di Roma e Unicredito erano su posizioni contrapposte. Ebbene da
qualche mese i vertici dei due istituti si parlano, anzi
cominciano ad avere nei confronti di Mediobanca una inedita unità
di vedute. Pericolosissima per Maranghi, che lunedì scorso, nella
riunione del patto di sindacato di Hdp che ha bocciato l’ ingresso
di Salvatore Ligresti, ha toccato con mano che ormai non può
contare con certezza non solo sulla Fiat, ma neanche su Marco
Tronchetti e su Cesare Romiti, fino a poco tempo fa suo alleato di
ferro. Maranghi aveva realizzato perfettamente già prima di
lunedì che nell’ azionariato di Mediobanca si era andato creando
un clima che questa volta avrebbe potuto portare alla nomina di un
presidente non scelto da lui e a un ridimensionamento sostanziale
dei suoi poteri. L’ essersi trovato in minoranza lunedì scorso nel
patto di sindacato di Hdp ha semmai rafforzato la sua
preoccupazione e di fronte a un rischio del genere, invece di
cercare una mediazione, Maranghi ha lasciato prevalere il suo
carattere e ha deciso di alzare la posta: da giovedì non è più in
gioco solo la presidenza di Mediobanca ma tutto l’ assetto. O
Maranghi o gli attuali grandi azionisti. Imponendo le dimissioni a
Gutty, Maranghi li ha provocati costringendoli a uscire allo
scoperto, la guerra è diventata totale. L’ obiettivo che Maranghi
ha in testa è probabilmente quello di far saltare il patto di
sindacato che ogni giorno di più sta trovando il suo collante
nell’ identificare nell’ amministratore delegato di Mediobanca il
nemico comune. Una volta saltato il patto attuale Maranghi
immagina probabilmente di poterne costruire un altro di soli amici
intorno ai fedelissimi Pesenti, Lucchini, Ligresti, Bollorè, forse
Doris, magari Gnutti, Micheli e chissà chi altri ancora. E’ una
partita rischiosissima da parte sua, che però Maranghi conduce con
spavalderia avendo dalla sua il vantaggio che nel suo esercito è
lui il solo a decidere. Il rischio che corre è che il suo esercito
non sia sufficiente o, ancora prima, che i membri del patto di
sindacato di Mediobanca riescano a mettere insieme una maggioranza
che in sede di riunione del sindacato o, più probabilmente, nel
consiglio di amministrazione di Mediobanca convocato per il 23
settembre prossimo, lo sfiduci.
Schiere di avvocati sono già al
lavoro da una parte e dall’ altra per studiare ogni mossa e
prevenire le mosse dell’ avversario. Ed è cominciato anche il più
difficile lavoro di costruire, da una parte e dall’ altra, le
maggioranze. Nel patto di sindacato Maranghi sembra poter contare
sui voti di Mediolanum, Commerzbank, Italimobiliare, Generali,
Sai, Fondiaria, Burgo, Pecci e altri azionisti minori per un
totale che potrebbe avvicinarsi al 35 per cento delle azioni
sindacate, e cioè più o meno quanto mettono insieme le sole
Unicredito e Capitalia. Si può peraltro immaginare che con queste
ultime si schierino Fiat e Pirelli aggiungendo un altro 8 per
cento circa. La partita quindi, benché in partenza non favorevole
a Maranghi è aperta. Lo scenario che si aprirebbe se dovesse
vincerla non è rassicurante, è facile immaginare che alla fine a
raccogliere i frutti saranno coloro che ci hanno messo i denari.
Vedremo le Generali fare grandi affari con Bollorè, e chissà come
si troveranno in sua compagnia Luigi Lucchini e Gianpiero Pesenti.
C’ è una ragione di fondo tuttavia per la quale è possibile che
questa volta la ciambella di Maranghi non riesca con il buco, ed è
il fatto che un tempo era Mediobanca che dava i soldi, chiamava
Comit, Credit e Banca di Roma e diceva loro quanto dare e a chi.
Ora invece i soldi Banca Intesa, Unicredito, Capitalia, li danno
loro, ciascuna decidendo con la propria testa e senza aspettare
gli ordini di Mediobanca. Non sarà il caso di scomodare valori
alti e neppure valori bassi per spiegare quello che succederà nei
prossimi dieci giorni, sono cambiati i rapporti di forza tra i
diversi pezzi del sistema e questo determina una pressione che
durerà finché non sarà raggiunto un equilibrio che rispecchi la
nuova realtà. Maranghi resiste al cambiamento, ma determinando la
rottura lo ha inevitabilmente accelerato, perché che a contare di
più in Mediobanca siano alla fine Profumo e Geronzi oppure
Bernheim e Bollorè, comunque la Mediobanca che lui, Maranghi, sta
difendendo, già non esiste più.

Fonte: «La Repubblica - Affari Finanza» del 16 settembre 2002

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