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Marco Biagi, la missione che continua

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Matteo, 5,1-12). Il brano evangelico induce a riflettere sulla vicenda umana di Marco Biagi mentre viene inaugurata a Modena – trascorsi più di quattro anni dalla sua uccisione – la sede della Fondazione intestata a suo nome e presieduta da Marina Orlandi, la compagna di un’intera vita che ha voluto, con una tenacia pari solo al riserbo, onorare la memoria del marito continuandone gli studi e le attività di ricerca e formazione, ora ospitati in una istituzione permanente. Una scelta giusta e corretta, non solo dal punto di vista scientifico, ma anche sul piano umano: quanti lasciano dietro di sé l’oblio muoiono due volte. Al contrario, chi ha la possibilità di affidare al futuro ampia traccia del proprio lavoro continua a vivere insieme a coloro che raccolgono le messi del sapere che ha seminato. L’opera di Marco Biagi prosegue grazie alla sua , all’azione degli amici, degli allievi e delle allieve, guidati da Michele Tiraboschi, nonché ad alcuni importanti strumenti culturali: una rivista, un bollettino on line, sempre ricco di documentazione stimolante, un Centro Studi incardinato nell’Università di Modena. Adesso, dopo l’inaugurazione della sede, si aggiunge anche la piena agibilità della Fondazione. L’evento del 16 novembre finisce inevitabilmente per assumere un significato simbolico, nel momento in cui la legge Biagi – dopo un periodo di tregua – torna ad essere oggetto di astiose polemiche. Una parte della maggioranza si è spinta, in pratica, fino ad accusare l’altra parte (ed una persona seria, preparata e civile come il ministro Cesare Damiano) di essere eccessivamente condiscendente nei confronti della legge n.30/2003, anziché agire per la sua abrogazione, in nome della , evocata ed invocata alla stregua di un’ordalia (proprio nello stesso giorno in cui gli unici lavoratori ad essere sono stati, ancora una volta, i pubblici dipendenti). Strano Paese l’Italia ! Le statistiche ufficiali danno conto dei notevoli successi conseguiti in tema di occupazione, ma da noi si preferisce considerare tali risultati come segnali negativi. Quando l’Istat, pubblicando i dati del primo trimestre 2006, aveva certificato che il tasso di impiego era salito ai livelli del 1992 (in valore assoluto, + 536mila occupati rispetto il medesimo periodo dell’anno precedente), che tutte le aree del Paese erano andate avanti, che tutte le componenti (le donne ancor più degli uomini, gli immigrati, gli ) avevano progredito, un quotidiano si era spinto persino ad intitolare che era cresciuta la . Certo, sarebbe sbagliato ignorare i gravi problemi che esistono: l’Italia è ancora lontana dai target di Lisbona 2000; quasi tutta la flessibilità, occorrente al sistema produttivo per non essere ancor più ingessato, si è scaricata sulle giovani generazioni (a causa anche dell’ostinazione delle organizzazioni sindacali nel difendere talune prerogative degli insiders, divenute insostenibili). Ma è assurdo soffermarsi a criticare solo i limiti di un processo imponente realizzato negli ultimi anni – nonostante una congiuntura economica tendente alla recessione – grazie soprattutto ai provvedimenti di riforma del lavoro (il pacchetto Treu e la legge Biagi), senza riconoscerne i meriti. Nel 1997, prima che le leggi innovative sbloccassero il mercato del lavoro, a fronte di una crescita del Pil del 2%, il tasso di occupazione aumentò dello 0,38%.
Nel 2004 (uno degli quanto a crescita economica), il tasso di impiego è stato pari al doppio del saggio di sviluppo. Nel primo semestre dell’anno in corso, l’incremento degli occupati è stato del 2,4%. Sarebbe il caso, allora, di essere più seri. Anziché combattere la precarietà con slogan triti e ritriti, bisognerebbe rispondere, con onestà intellettuale, ad una semplice domanda: quante imprese avrebbero assunto nuovo personale, negli anni di crisi, in mancanza di una legislazione del lavoro più flessibile ?

Fonte: il Sole 24 Ore del 15 novembre 2006

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