• giovedì , 26 Dicembre 2024

Maestro e profeta

Il giovane Letta è incomprensibile senza Andreatta e il suo fatale talento.
In un “Parlamento pieno di fuori corso”, come lo definisce amaramente Giuliano Amato, che ci sta a fare Enrico Letta? Se questa è la tendenza della politica sotto i raggi delle 5 stelle, allora il capo del primo governo di grande coalizione è davvero un pesce fuor d’acqua. O meglio un balenottero, l’ultimo epigono della Balena bianca. In realtà, Letta rappresenta l’esponente tipico della generazione di mezzo, quella che non esce più dall’accademia dei partiti di massa e non ha ancora trovato un’altra grande nave scuola. Ha costruito il suo profilo intellettuale mano nella mano con il profilo politico, ha fatto carriera grazie a una rete ben tessuta e a un maestro di prim’ordine.
La rete ruota attorno all’Arel, acronimo per Agenzia di ricerche e legislazione, il maestro è stato Nino Andreatta che l’ha fondata nel 1976 insieme a Umberto Agnelli, Urbano Aletti, Adriano Bompiani, Franco Grassini, Ferrante Pierantoni. Un pensatoio dalle grandi ambizioni: modernizzare la Democrazia cristiana nel momento in cui la crisi petrolifera e l’offensiva del Partito comunista italiano cominciano a scuotere le basi del suo sistema, staccarla dall’ipoteca vaticana e farla competere alla pari con i poteri forti laici, dentro e, sempre di più, fuori dall’Italia. Si guarda al presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e al “défi américain”. Si tiene d’occhio la Germania non solo democristiana, ma quella di Helmut Schmidt il socialdemocratico che scuote gli ultimi residui post marxisti. Si segue (anche se con un’ombra di cattolico sospetto) Margaret Thatcher mentre scuote la foresta pietrificata dell’Inghilterra tory. Vasto progetto che andrà incontro a molti fallimenti, a cominciare dalla breve e deludente esperienza di Umberto Agnelli come parlamentare dc.
Letta tutto ciò l’ha studiato sui libri perché entra in contatto con l’Arel solo nel 1990, quando molte di quelle grandi aspettative sono state già frustrate. Dunque, è un tardo allievo, a differenza di Romano Prodi che comincia la sua carriera accademica come assistente di Andreatta e poi da lui viene lanciato in politica. Ma chi era Andreatta?
Mario Draghi lo ricorda nel 2008 (vedi box sotto) ed esordisce dicendo che “è difficile distinguere l’economista dal politico”. Poi ne traccia un perfetto profilo intellettuale. Un keynesiano critico e autocritico, un democristiano che vuole recuperare la Dc di Alcide De Gasperi, trentino come lui. Nato l’11 agosto 1928, si forma a Padova, poi insegna alla Cattolica di Milano. Su Cronache sociali di Dossetti e La Pira scopre il cattolicesimo sociale. A Cambridge s’abbevera alla fonte di J.M. Keynes. Sotto la guida della marxista Joan Robinson si appassiona di sottosviluppo. Nel 1961 va in India per conto del Mit, lavora alla Planning Commission del governo Nehru, incontra Amartya Sen. Dura un anno, torna in patria per seguire la carriera accademica. Finché non resta folgorato da Aldo Moro che lo vuole tra i propri consiglieri. E’ il primo centrosinistra, quello della programmazione economica e dello stato che raddrizza i torti nella distribuzione dei redditi. Sono le basi dell’incontro con i giovani socialisti riuniti attorno ad Antonio Giolitti: Giuliano Amato, Giorgio Ruffolo, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno.
“Il primato che attribuisce alla crescita lo porta spesso a criticare le politiche economiche seguite dall’Italia negli anni Cinquanta e Sessanta come timide, restrittive, ciecamente ortodosse – spiega Draghi – Che De Gasperi abbia preferito Einaudi e Menichella a economisti che egli ritiene più coraggiosi fautori dello sviluppo lo ferisce. Anche il governatore della Banca d’Italia Guido Carli viene da lui accusato di aver sacrificato inutilmente, con la manovra monetaria restrittiva del 1963-64, alcuni punti di crescita del prodotto nazionale, nonché di ostacolare la programmazione economica”. E’ questo il filo conduttore del suo periodo all’università di Trento, culla della rivolta intellettuale e sociale, dove ha studiato anche Renato Curcio, fondatore poi delle Brigate rosse.
Proprio la crisi verticale degli anni 70 gli fa cambiare molte idee. Dice ancora Draghi: “Andreatta è tra i primi keynesiani ad affrontare con coraggio le nuove sfide di quel difficile decennio, esponendo i danni dell’inflazione, progettando con la Banca d’Italia gli strumenti per combatterla, affermando con Carlo Azeglio Ciampi il concetto che il tasso di cambio non deve accomodare passivamente l’aumento dei prezzi interni. Fu conversione? E’ più giusto parlare di studio, di applicazione dell’intelligenza alla realtà”. E’ allora che nasce l’Arel.
Andreatta si era già spostato a Bologna e aveva fondato Prometeia, associazione di studi macroeconomici nel 1974. In quel periodo lavora a un programma per le le larghe intese con il Pci insieme a economisti a lui vicini intellettualmente anche se collocati a sinistra come Luigi Spaventa, che aveva come sponda Giorgio Napolitano.
Con la fine del compromesso storico e il gabinetto Cossiga del 1979, Andreatta entra per la prima volta al governo come ministro del Bilancio. Poi sarà un ministro del Tesoro di rottura, a cominciare dal divorzio: cioè la decisione che la Banca centrale non è più obbligata ad acquistare titoli di stato, una mossa che Carli aveva giudicato “sovversiva”.
Ricorda Andreatta: “Ero al ministero da poco più di tre mesi quando dovetti valutare, con senso di urgenza, che la crisi del secondo shock petrolifero imponeva di essere affrontata con decisioni politiche mai tentate prima di allora. La propensione al risparmio finanziario degli italiani si stava proprio in quei mesi abbassando paurosamente e il valore dei cespiti reali – case e azioni – aumentava a un tasso del cento per cento all’anno. La soluzione classica sarebbe stata quella di una stretta del credito, accompagnata da una stretta fiscale, che, come nel 1975, avrebbe creato una recessione con una caduta di alcuni punti del prodotto interno lordo; ma la Banca d’Italia aveva perduto il controllo dell’offerta di moneta, fino a quando essa non fosse stata liberata dall’obbligo di garantire il finanziamento del Tesoro; mentre il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dell’accordo tra Confindustria e sindacati confederali proprio nei primi mesi del 1975, aveva talmente irrigidito la struttura dei prezzi, che, in presenza di un raddoppio del prezzo dell’energia, anche una forte stretta da sola era impotente. L’imperativo era di cambiare il regime della politica economica e lo dovevo fare in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall’ ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole. La nostra stessa presenza nel Sistema monetario europeo era allora messa in pericolo (c’è da ricordare che il partito socialista si era astenuto quando il Parlamento votò nel 1978 sull’adesione all’accordo di cambio e che i ministri socialisti avevano di fatto un potere di veto sulla politica economica). Il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al divorzio”.
Fu vera gloria? I posteri danno un giudizio quanto meno sfumato. Soprattutto oggi che lo Zeitgeist è cambiato e viene rimessa in discussione l’assoluta indipendenza delle Banche centrali. L’articolo 1 della legge finanziaria, un’altra invenzione andreattiana, non ha impedito che il debito pubblico raddoppiasse raggiungendo il 120 per cento del pil. Andreatta voleva spingere lobby e potentati a un gioco a somma zero. Invece, le entrate fiscali sono sempre aumentate, ma mai quanto le spese. Il divorzio non ha stroncato l’inflazione, ha tenuto alti i tassi d’interesse più che negli altri paesi, ha contributo all’aumento del debito. E’ vero, la lira s’è rafforzata e ciò ha dato una frustata alle imprese costringendole a ristrutturarsi. Ma alla lunga il tasso di crescita di medio termine s’è ridotto fino a fermarsi del tutto.
L’altro beau geste riguarda il crac del Banco Ambrosiano. Andreatta lo risolve facendo fallire la banca e creando un nuovo istituto. Lo affida a un avvocato bresciano, Giovanni Bazoli, proveniente da sacri lombi (il padre era tra i fondatori del Partito popolare, amico della famiglia Montini che avrebbe dato un Papa, Paolo VI). E fa pagare il costo del fallimento al Vaticano: un miliardo e rotti di dollari che mette a terra lo Ior. Per un decennio Andreatta non entrerà più in nessun governo.
Ma come, proprio un cattolico come lui apre una falla nel tesoro di San Pietro? Ebbene, quel cattolico liberale ha in testa un progetto che vuole sganciare la finanza bianca da quella “nera”, sprovincializzare, giocare in proprio, sfidare i poteri forti laico-massonici che controllano l’alta finanza milanese. Anche Giulio Andreotti aveva gli stessi nemici ma si era mosso in direzione opposta, proteggendo il Vaticano anche a costo di coprire Michele Sindona e Roberto Calvi, o spingendo al posto di Raffaele Mattioli al vertice della Banca Commerciale, Gaetano Stammati iscritto alle loggia P2. L’avversario comune si chiama Enrico Cuccia che proprio in quegli anni 70, preso di fatto il controllo della Fiat con Cesare Romiti, raggiunge il massimo del suo potere. Un centauro con la testa privata e il corpo pubblico, si definirà lo stesso banchiere in Parlamento. Ebbene, quella creatura mitologica va tagliata in due, secondo Andreatta. Prodi all’Iri cerca di perseguire l’obiettivo attraverso un progetto di privatizzazione di Mediobanca e “licenzia” Cuccia il quale rientra come rappresentante dei privati e resta sempre il dominus, ma non è più un funzionario dello stato.
In questa battaglia si scontra con Bettino Craxi che difende Cuccia anche per creare zizzania nella Dc. Andreatta è un fiero nemico del segretario socialista e dei suoi uomini. Nota alle cronache è la “lite delle comari” del 1982 con Rino Formica, scoppiata proprio sulla separazione dei beni tra Tesoro e Bankitalia. Dieci anni dopo diventerà anche un fiero nemico di Berlusconi.
Nel 1993, in pieno smottamento della Prima Repubblica, torna al governo con Amato (al Bilancio) e poi con Ciampi agli Esteri. E’ suo il patto con Karel Van Miert, leader socialista belga e commissario europeo alla concorrenza che dà il “la” alle grandi privatizzazioni. Il ripiano del buco Iri con il fondo di dotazione, veniva considerato aiuto di stato all’industria e doveva finire. Nemmeno questa scelta è mai andata giù ai socialisti (si deve a Biagio Marzo, plenipotenziario di Craxi all’industria, un veemente e documentato libro sulla “svendita” delle imprese pubbliche). Oggi anche chi la difende è disposto a discutere sui modi, sui tempi, sulla carenza di strategia industriale, la debolezza delle liberalizzazioni (che invece in paesi come la Gran Bretagna avevano preceduto le privatizzazioni), sui plateali errori come nel caso di Telecom Italia, sulla logica di far cassa al più presto che accompagnò in particolare l’impostazione di Ciampi (si pensi, invece, che la prima tranche di British Telecom venne venduta dalla Thatcher, l’ultima da Tony Blair).
Andreatta non ha fatto in tempo a rispondere. Un ictus lo ha accasciato in Parlamento il 15 dicembre 1999 durante la discussione della legge finanziaria (che orrenda nemesi). Resterà in coma per otto anni. Aveva abbandonato l’idea di far rinascere la Dc, lavorando invece per costruire l’Ulivo, la convergenza tra ex democristiani progressisti ed ex comunisti. E, con l’aiuto di Bazoli, aveva spinto Prodi a sfidare Berlusconi nel 1996. S’era accontentato di fare il ministro della Difesa in un momento difficile in cui esplodeva la ex Jugoslavia.
Ha capito molto presto che la globalizzazione avrebbe messo alla frusta l’occidente. “Abbiamo bisogno di esempi non controvertibili di politiche che abbiano successo, almeno in un paese, e che conducano realmente a riassorbire la disoccupazione – scrisse nel 1995 – Fino a quando questi successi non si imporranno con la forza persuasiva dei fatti, le società rimarranno divise e mancherà il consenso sui costi di bilancio e sulla disciplina sociale che sono richiesti dalla nuova politica economica. Si potrebbe così verificare un processo inverso per cui – invece di un progressivo allargamento della zona di pace e benessere – ci potrebbe essere un suo crescente restringimento. Attraverso i veicoli delle migrazioni di massa, del terrorismo, del fondamentalismo, della droga e delle epidemie – che i confini nazionali non possono fermare – il sud del mondo potrebbe contagiare con le sue ansie anche le apatiche e opulente società industriali. Il grande impero occidentale cadrebbe proprio nel momento del suo trionfo, quando non vi sono più nemici all’orizzonte. Come dopo il crollo dell’Impero Romano, questo lascerebbe il posto a un nuovo Medioevo fatto di megalopoli anarchiche e di poteri statali corrotti e impotenti. L’alternativa a questa scommessa tra la redenzione del mondo intero e la decadenza generalizzata è una divaricazione in due distinte aree: l’occidente e il resto – the west and the rest –, da una parte progressivo benessere e sviluppo della società civile e dall’altra una esasperata ricerca di modelli alternativi che cercano pace senza libertà o sviluppo senza pace”.
L’economista, dunque, ha ancora molto da insegnare. E il politico? Il suo progetto s’è consumato. La primavera dell’Ulivo ha germinato il Partito democratico il quale sembra arrivato all’autunno. Prodi, in qualche modo esecutore testamentario di Andreatta, è stato bocciato dai suoi stessi virgulti nella guerra del Quirinale. Letta, l’erede più giovane, rappresenta la cerniera verso una nuova esperienza politica che riparte dall’ispirazione ulivista per andare oltre. Nel momento in cui si è spento Giulio Andreotti, il potente nemico interno alla Dc, anche l’èra di Andreatta si chiude.
Resta l’Arel, dove tra l’altro ricopre un ruolo importante il figlio Filippo, geopolitico di rango. E dove vengono stretti contatti con il mondo dell’economia, intrecciando quelle relazioni internazionali senza le quali oggi non si governa. Con l’ex ministro Tiziano Treu si discute sul futuro del welfare. Con il sottosegretario Carlo Dell’Aringa sul mercato del lavoro. Non mancano nel programma di ricerca gli “scenari di transizione” e nemmeno “il calcio al tempo dello spread”. Libri con il Mulino, osservatori su energia, infrastrutture, comunicazioni, i settori strategici. Insomma, l’Arel resta un lascito fertile, se non diventa anch’essa il pensatoio a gettone per progetti a breve termine ed effimere carriere.

Fonte: Il Foglio del 12 maggio 2013

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