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Maastricht non e’ Versailles e l’economia non scrive la storia

Appelli di economisti non sono una novità di questi tempi. Neppure una novità è drammatizzare le conseguenze, in termini soprattutto di disoccupazione, delle politiche di austerità europee. Ma l’appello promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (intervistato anche sul Foglio del 25 settembre) e sottoscritto da ben 300 firmatari è singolare per molti motivi: perché la lettera che lo illustra è stata pubblicata su quattro colonne dal Financial Times del 23 settembre; perché, uscita proprio il giorno del trionfo della Merkel, diventa quasi un appello alla futura cancelliera, ritenuta simbolo del rigore tedesco imposto ai paesi del sud Europa; ma soprattutto per il paragone storico su cui si basa, e su cui il Financial Times fa il titolo: “I governi europei stanno ripetendo gli errori del trattato di Versailles”.
L’ipse dixit è ovviamente John Maynard Keynes, di cui vengono citate le “lungimiranti parole” con cui cercò di opporsi a quegli errori: “Se abbracciamo l’idea che la Germania deve essere mantenuta povera e i suoi figli denutriti, se miriamo deliberatamente all’impoverimento dell’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non tarderà”.
Questa rievocazione del trattato che chiuse la Prima guerra mondiale, stride con i ricordi degli eventi che condussero l’Italia nella moneta unica. La maggioranza degli italiani credette che quella fosse una vittoria, chi era contrario lo considerò un errore, nessuno lo vide come una sconfitta. Fummo contenti di vendere le grandi conglomerate di stato per ridurre il nostro debito, credemmo a chi ci prometteva che l’eurotassa per ridurre il nostro deficit sarebbe stata un conveniente prestito destinato a essere a breve rimborsato, quasi ci offendemmo quando ci venne ricordato che il 3 per cento doveva intendersi come 3,0.
È dopo che cambiò la musica. Non riuscimmo, non dico a ridurre, ma a contenere la spesa pubblica; non dico ad abbassare, ma almeno a non far crescere il carico fiscale; a liberalizzare il mercato del lavoro e a rendere giusta ed efficiente la Pubblica amministrazione, compresa la giustizia. Non riuscimmo a crescere, non dico a ritmi da Bric, ma neanche a quello dei nostri partner europei. Anche il viceministro dell’Economia Stefano Fassina sostiene che la dottrina “chiamata con linguaggio creativo di austerità espansiva” sia sbagliata e dannosa, incurante di mettersi contro il pensiero consolidato del Fondo Monetario di cui potremmo avere bisogno.
Ma c’è una linea rossa anche per le metafore: la contrapposizione tra i paesi in difficoltà e quelli in posizione comparativamente più vantaggiosa non è una guerra, le crisi non sono il risultato di una guerra, nessun paese ha “riparazioni di guerra” da pretendere. E quanto agli aiuti, possono essere richiesti, e potrebbero essere elargiti, al fine di eliminare le cause non di sopperire alle conseguenze: altrimenti sarebbero solo palliativi che ritardano la guarigione. Il paragone tra Maastricht con Versailles non ha senso. Istituito in nome della fede europeista è sinistramente contraddittorio: i partecipanti al tavolo di Maastricht erano lì proprio perché non ci fossero più guerre tra loro. Istituito in nome della razionalità economica rivela un determinismo vagamente inquietante.
Sostenere che “la crisi in corso presenti più di una somiglianza con quella terribile fase storica, che creò le condizioni per la nascita del nazismo e della Seconda guerra mondiale”, implica credere che la storia degli uomini sia soggetta a leggi per cui, date certe circostanze, gli effetti non possono che ripetersi meccanicamente.
Leggi che alcuni conoscono, effetti che alcuni sanno come evitare. C’è una strana circolarità se epigoni di Keynes citano Keynes a sostegno della propria fiducia negli effetti della macroeconomia. Dopo Versailles ci fu l’iperinflazione, ma alla fine fu domata. Ci furono le riparazioni di guerra, ma alla fine furono rinegoziate. I tedeschi di allora, invece, “hanno dimenticato che hanno perso la guerra, dimenticato che l’hanno iniziata loro, dimenticato che l’hanno dichiarata”. Lo scriveva Karl Kraus ne “Gli ultimi giorni dell’umanità”. E prevedeva che “per questa ragione non finirà mai”.
Non sono le leggi a determinare i destini delle nazioni, ma le volontà degli individui. Conta la visione che si ha dello stato e dei propri rapporti con esso. Conta la memoria della storia, conta la coscienza di che cosa compone un’identità. Gli Eurobond non bastano.

Fonte: Il Foglio del 27 settembre 2013

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