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Luciano Lama ci ha insegnato che vuol dire il rispetto dell’avversario

“Signor Presidente, il 31 maggio di quindici anni or sono moriva, a Roma, Luciano Lama, dopo aver trascorso, condannato dalla malattia all’immobilità , gli ultimi mesi di vita nella sua casa di via Mercadante contornato dall’affetto della moglie, delle figlie, del fratello, degli amici e dei collaboratori più stretti e fidati. Di sé Lama aveva detto: “sono un uomo che naturalmente ha gioito, ha patito, ha sofferto, ha vinto, ha perduto, però sono soddisfatto della mia esistenza. Sono proprio contento della mia vita e sono contento perché sono convinto di non averla buttata via”.
Lama non è stato soltanto un grande dirigente sindacale che ha vissuto tante sfide e che ha saputo, con la sua capacità comunicativa, portare l’idea e l’immagine familiare del sindacato nelle case degli italiani. Lama è stata una delle autorità morali della Repubblica democratica fondata sul lavoro, un padre della patria stimato, riconosciuto e rispettato da tutti, anche dagli avversari. Signor Presidente, onorevoli colleghi, i padri della patria, anche quando appartengono ad uno schieramento diverso dal nostro, sono un patrimonio di tutti. Combattente nella seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre del 1943 passò nelle file della Resistenza. Dopo la liberazione ebbe incarico dal Comitato di liberazione nazionale della sua città , Lama era romagnolo, di ricostruire la Camera del lavoro di Forlì. La lo aveva scoperto Giuseppe Di Vittorio che lo volle al suo fianco come vicesegretario nella direzione nazionale della CGIL. Venne poi chiamato a dirigere le categorie dei chimici prima, e dei metalmeccanici poi quando alla fine degli anni Cinquanta ripartivano le prime esperienze di riscossa unitaria dopo le scissioni degli ultimi anni Quaranta. Rientrato nel 1962 nella segreteria confederale fu eletto, nel 1970, segretario generale della CGIL all’uscita di Agostino Novella.Conservò quella carica per ben sedici anni fino al 1986, un lungo periodo ricco di eventi che misero a dura prova la stessa tenuta democratica del Paese, ma che nel medesimo tempo furono teatro di grandi conquiste del movimento sindacale, molte delle quali oggi possono sembrare discutibili e critiche, ma che allora illuminarono di sé le coscienze e le aspettative di milioni di lavoratori e cittadini. Furono gli anni – è bene ricordarlo oggi al cospetto delle macerie del progetto di unità sindacale – in cui quegli stessi gruppi dirigenti che erano stati protagonisti delle scissioni e delle polemiche che ne erano seguite si impegnarono veramente nel tentativo generoso della riunificazione sindacale arrivando ad un passo dal realizzare questa aspirazione e comunque ponendosi il problema di salvaguardare i risultati di un processo unitario che non era giunto a compimento.
Nelle vicende del 1984 e del 1985, dal decreto di San Valentino sulla scala mobile al referendum, l’azione di Lama e di Ottaviano Del Turco furono decisive nel salvaguardare l’unità della CGIL. Nel 1986, lasciata la CGIL, Lama passò al lavoro di partito, ma tornò ben presto a svolgere il ruolo istituzionale che gli era più congeniale come Vicepresidente vicario di Giovanni Spadolini al Senato. Poi, il consueto spirito di servizio lo portò a chiudere la sua attività pubblica come sindaco di Amelia, la cittadina in cui la famiglia aveva il suo buon ritiro. Di Lama, signor Presidente e onorevoli colleghi, potrei parlare per ore, giorni e settimane, dell’uomo pubblico come di quello privato, alto e diritto, grande lavoratore, amante della buona tavola, fervido tifoso juventino, accanito fumatore di pipa rigidamente di marca Peterson, appassionato giocatore di scopone scientifico.
Signor Presidente, io ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscere Lama, di lavorare con lui, di godere della sua considerazione e, in qualche modo, anche della sua amicizia. L’ho stimato come un impareggiabile maestro, l’ho seguito come una guida autorevole e sicura. Nel ricordarne la memoria in quest’Aula, dove Lama fu deputato fino al 1969, mi sia consentito, per chiudere, di citare i versi che Walt Whitman scrisse in memoria di Abramo Lincoln: “Oh capitano! Mio capitano! Alzati a sentire le campane”.

Fonte: Occidentale del 2 giugno 2011

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