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LUCI E OMBRE DELLA TERAPIA MONTI

Quando un soggetto indebitato fino al collo e con i bilanci in rosso non trova più finanziatori disposti a concedergli altre risorse, non gli rimane altra scelta che tornare a vivere entro i mezzi che riesce a generare o col suo lavoro, o vendendo beni di cui dispone. È una realtà inesorabile a cui non sfugge nessuno. Non può decidere semplicemente di fermare il rapporto tra debito accumulato e disponibilità, o tra debito e reddito, perché si trova ormai nell’impossibilità di aggiungere nuovo debito. Deve piuttosto ridurre tout court l’ammontare stesso del debito, o cominciando a rimborsarlo, o dichiarando l’insolvenza.
A questa condizione si è avvicinata attualmente anche l’Italia, dopo avere accumulato un debito stimato quest’anno attorno al 120% del PIL. Una cruda realtà che stenta a penetrare nella testa di gran parte degli italiani e che neanche l’attuale governo “tecnico” sembra voler immediatamente accettare e spiegare in tutta la sua crudezza al Paese. In effetti, anche il prossimo anno il debito pubblico tenderà ad aumentare come conseguenza di un disavanzo, seppur ridotto rispetto a quest’anno, che è reso possibile solo dalla copertura fornita dalla BCE e dalla speranza che con l’austera terapia varata giorni or sono si riesca a convincere i finanziatori privati a riaprire il rubinetto del credito. Quindi conquistarsi la fiducia della BCE e dei mercati finanziari è cruciale per il Paese per sfuggire alla bancarotta.
In una situazione di emergenza come l’attuale solo su questo criterio è legittimo valutare la bontà dell’azione intrapresa dal Governo. E su questa base va riconosciuto senza esitazioni che gli ultimi provvedimenti vanno nel senso giusto, sono necessari e serviranno ad evitare il baratro dell’insolvenza. In particolare, si sono adottate correzioni al bilancio di portata permanente, si è completata la riforma previdenziale tagliando la progressione della spesa, si è posto un freno ai trasferimenti di risorse a Regioni, Comuni ed altri enti pubblici, si è aggiornata la tassazione del patrimonio immobiliare, si sono riavviati gli investimenti in infrastrutture, si è iniziato a liberalizzare la concorrenza in settori protetti, si è dato sostegno alle imprese sui fronti del costo del lavoro e dell’accesso al credito, si è usata abbastanza equità nei sacrifici.
Tuttavia, dato atto di tanto, il Paese non si può illudere di aver fatto abbastanza; piuttosto, deve essere consapevole che molto di più deve ancora fare e che va fatto da tutti, sia che i sindacati lo comprendano o no, perché il problema è così immane che solo con l’apporto di tutti, senza eccezioni ed in equa misura, si può uscirne.
Il Governo per la sua parte è chiamato ad ogni modo a fare ordine nella sua strategia economico-finanziaria. Si avverte in particolare il bisogno di ricomporre tutti gli interventi attuati o in cantiere in un quadro più organico, chiarendo quale è la scala di priorità tra le esigenze, quale la sequenza degli interventi, i tempi d’impatto, la coerenza tra le diverse azioni e verso quale assetto economico si marcia. A tal fine può essere utile riflettere su alcuni punti.
Troppi gli obiettivi messi a fuoco nel primo round della terapia, mentre sarebbe meglio concentrarsi sulle più urgenti priorità, abbandonando le diffuse illusioni che si possa tagliare il deficit pubblico e rilanciare la crescita economica al tempo stesso. L’esperienza internazionale conferma che solo in un contesto internazionale estremamente favorevole e con il deprezzamento del valore esterno della moneta si possono coniugare i due termini in un orizzonte di un paio di anni, ma nessuna delle due condizioni è al momento ipotizzabile per l’Italia. L’euro debole e la stentata ripresa degli USA potrebbero attenuare, non invertire l’effetto depressivo sulla crescita che avrà la correzione dei conti pubblici.
Dovendo puntare su poche priorità essenziali, la scelta dovrebbe cadere sui tre obiettivi più importanti. Primo, mantenere il debito pubblico nel 2012 entro il livello nominale raggiunto a fine 2011, il che implica rinnovare solo il debito in scadenza senza aggiungerne altro, costi quel che costi. Quale miglior prova di questa per riottenere la fiducia dei mercati?
Secondo, avviare un’azione risoluta di riduzione della spesa pubblica, già troppo elevata (51% PIL) in rapporto ai servizi che il cittadino ne trae, correggendo la distorsione della terapia Monti, che poggia per due terzi su prelievi, portando la pressione fiscale al picco del 45% del PIL. Ad esempio, i tagli dei trasferimenti statali agli enti sul territorio non si traducono in minore spesa, perché in assenza di incrementi di efficienza e produttività, saranno compensati da aggravi fiscali a livello locale. Ad essi si sommano tariffe più care per servizi pubblici ed assistenza sanitaria. Si aggrava, inoltre, la tassazione sulla ricchezza finanziaria, quando invece bisognerebbe elevare la propensione al risparmio e all’acquisto di titoli. Per altro verso, non si incide sulla spesa sanitaria, che cresce a dismisura ed è costellata da malversazioni. Ridurre la spesa è invece necessario per abbassare sia il debito, sia la tassazione, che oggi si colloca al di sopra della media euro. Al tempo stesso manca un vincolo a dismettere parti consistenti del patrimonio pubblico, quando questi proventi potrebbero rappresentare il mezzo per abbattere una quota consistente del debito, senza dover ricorrere a nuove imposte o tariffe, deleterie per il potenziale di crescita economica.
Terzo, occorre sin d’ora porre le premesse per un nuovo modello di crescita, puntando risolutamente su un salto di competitività di costo, d’innovazione e di redditività delle imprese. L’alleggerimento previsto dell’IRAP è ancora troppo tenue per incidere sul costo del lavoro, né vi sono stimoli forti all’avanzamento della produttività e dell’innovazione. Le liberalizzazioni appaiono più sulla carta che sul terreno e le resistenze ne postergano ancora l’attuazione. Ad esempio, nonostante il decreto Monti, i tassisti romani hanno ottenuto un’esenzione dalla liberalizzazione della concorrenza. Parimenti, i trasporti locali restano imbrigliati nelle aziende pubbliche, gli autotrasportatori sono messi al riparo delle maggiorazioni delle accise sui carburanti e alla scure sui privilegi sembrano già sfuggire molti. Se non si spezzano tutti questi interessi corporativi senza distinzione, ben difficilmente si potrà ricreare quel clima nuovo di cui il Paese, la società e l’economia hanno bisogno per uscire dal declino.
Ma non disperiamo: aspettiamo fiduciosi i prossimi rounds di misure per capire se il Paese avanza sulla retta via, o sta tornando alle vecchie politiche fallimentari.

Fonte: Articolo del 12 dicembre 2011

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