Il no alla rivalutazione Sei mesi fa, al vertice di Toronto, i cinesi erano riusciti a evitare in extremis di finire sul banco degli imputati per il loro rifiuto di rivalutare lo yuan Obama: rispetti gli accordi presi La Banca centrale cinese contro Bernanke: no alle bolle speculative.
Muro contro muro tra Stati Uniti e Cina sulla gestione degli squilibri commerciali internazionali e le nuove tensioni tra le valute a poche ore dall’ apertura del G20 di Seul. Ieri Pechino ha accusato ripetutamente l’ America e la sua Banca centrale, la Fed, di alimentare bolle speculative – una vera e propria ripresa dell’ inflazione mondiale – con la sua scelta di immettere altra liquidità nel sistema economico Usa, indebolendo il dollaro. La Banca centrale cinese ieri ha risposto con una stretta agli afflussi di capitali dall’ estero. Un gesto che da un lato indica il timore di Pechino di essere alluvionata da capitali in fuga dal dollaro che potrebbero destabilizzare un sistema economico-finanziario già surriscaldato da una crescita molto rapida che si porta dietro un discreto livello di inflazione, dall’ altro rappresenta una sfida agli Stati Uniti. Che hanno replicato facendo scendere in campo lo stesso presidente. Barack Obama, che due giorni fa aveva difeso la Federal Reserve dalle accuse che le erano piovute addosso dai partner europei e soprattutto dalla Germania, ieri ha approfittato della sua visita in Indonesia per rivolgere un messaggio alla Cina: «Vogliamo che questo grande Paese asiatico abbia successo e prosperi. Il suo sentiero di sviluppo ha un grande valore umanitario, perché consente di tirare fuori dalla povertà decine di milioni di cittadini, ed è anche nell’ interesse economico dell’ America perché un mercato in forte crescita offre nuove opportunità di esportare prodotti e servizi. Gli Usa non hanno, quindi, alcun intenzione di frenare questo sviluppo. Ma vogliono essere certi che chiunque svolge un ruolo di prima grandezza nell’ arena internazionale si assuma le sue responsabilità, operi nella cornice degli accordi presi. I diritti comportano anche responsabilità e questo vale per tutti». Sei mesi fa, al vertice di Toronto, i cinesi erano riusciti a evitare in extremis di finire sul banco degli imputati per il loro rifiuto di rivalutare lo yuan, promettendo che avrebbero operato autonomamente in questa direzione e imponendo al G20 di non fare alcun riferimento, nelle sue note ufficiali, alla posizione della moneta asiatica. Stavolta gli squilibri monetari e commerciali tra Usa e Cina rischiano di assorbire gran parte del lavoro dei venti Paesi-guida del mondo convenuti nella capitale sudcoreana. Con la novità che ad essere sul banco degli imputati finirà, paradossalmente, per trovarsi l’ America, assai più della Cina. Per rompere il possibile accerchiamento, durante il suo viaggio in Asia Obama si è già assicurato l’ appoggio alla politica monetaria di Washington dell’ India e, probabilmente, anche quello dell’ Indonesia, due partner importanti del G20. E agli europei il presidente Usa ricorda che l’ instabilità che ora lamentano non nasce dalle recenti misure della Fed – peraltro preannunciate da lungo tempo – ma dal crescente squilibrio commerciale tra gli Usa e una Cina che continua ad accumulare giganteschi «surplus» commerciali e riserve sterminate. I nuovi dati sugli avanzi record della bilancia cinese vengono però ignorati da Pechino che invece si concentra sulle contromisure della Fed. Un «quantitative easing» che, secondo il vicecapo della Banca centrale cinese, Ma Delun, «aiuta a finanziare nuove bolle speculative», mentre per il viceministro delle Finanze Zhu Guangyao, l’ immissione di liquidità della Fed rappresenta una minaccia soprattutto «per le economie dei mercati emergenti» che rischiano conseguenze destabilizzanti.
L’ora delle accuse:”Cambi, Pechino stia ai patti”
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