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Lo sviluppo che non si ottiene per decreto

Gianni Letta, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e gran mediatore, ben sa che lo sviluppo non si ottiene per decreto. Ricorda anzi l’insistenza con cui, agli albori del centro-sinistra, parte del Governo insistette perché il primo “programma quinquennale” (il “Piano Pierracini”) venisse approvato per legge: due anni dopo la preparazione del “Piano”, il Parlamento legiferò un tasso di crescita mentre si era entrati in quella che venne allora chiamata “la congiuntura difficile”.
Tuttavia , grava in gran misura sulle sue spalle la trattativa per arrivare al “Decreto Sviluppo” che forse oggi verrà approvato dal Consiglio dei Ministri. Il contesto non è dei migliori. Negli ultimi fascicoli della rivista “Moneta e Credito” della B.N.L. (un tempo controllata dal Tesoro ma ora dalla francese BNP Parisbas) , sono apparsi una serie di saggi dei maggiori economisti italiani molto pessimisti sul futuro del Paese e non incoraggianti nei confronti della politica economica del Governo. Lo preoccupa particolarmente il saggio di Antonio Pedone, uno dei “Padri Fondatori” dell’economia pubblica e consigliere di Governi sin dal “decretone” del 1968. Lo studio, intotalaro “Vecchi e Nuovi Problemi dell’Impiego delle Politiche di Bilancio”, pare mettere in dubbio quel “pareggio di bilancio” che sembra essere diventato non la stella polare ma l’unica stella nel firmamento delle strategie europee ed italiane. Lo studio, inoltre, afferma che sono “poco credibili” “regole quantitative rigide ed uniformi” che tengano conto delle “profonde differenze” tra Paese messe in luce proprio dalla crisi. Se l’analisi è corretta – si chiede il Sottosegretario – forse i “frondisti” non hanno tutti i torti.
Ma come uscire da quello che sembra un vicolo cieco? Dall’Estremo Oriente, dove suo fratello Corrado è di casa, è giunto che può essere utile. Ne è autore Haochen Sun della Università di Hong Kong , che lo ha pubblicato la settimana scorsa come Research Paper No 2011/009. Il titolo è eloquente: “verso una nuova teoria politica della dottrina della fiducia pubblica”. Il lavoro delinea un a nuova responsabilità sociale come guida per i comportamenti pubblici, anche quando si tenta di ottenere qualche vantaggio per il proprio portafoglio nel decretare lo sviluppo. Sempre dall’Oriente giunge sulla sua scrivania un lavoro quantitativo di Masato Shizume del servizio studio della Banca centrale giapponese appena pubblicato dalla prestigiosa Economic History Review. L’analisi tratta dello sostenibilità del debito pubblico nell’Impero. Non però del debito, pur elevatissimo, di oggi , ma di quello dei decenni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale. Armato con regressioni e modelli VAR, Shizume conclude che il 1931 è stato l’anno in cui si è varcato il Rubicone ed il debito pubblico nipponico da “sostenibile” è diventato “insostenibile” a ragione delle richieste pressanti dei militari. L’economia non sembrò soffrirne. Ma scoppiò la guerra “per mancanza di pressioni sia interne sia dai mercati finanziari internazionali”. Vale la pena rifletterci. Con calma, pace e serenità.

Fonte: Il Riformista del 21 ottobre 2011

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