L’economia italiana è caratterizzata da bassa crescita e bassa produttività, e non solo da oggi, ma da prima che la crisi finanziaria scoppiasse e si trasferisse all’economia reale. Situazioni come queste non scoraggiano di per sé gli investimenti, dato che dove si sono verificate perdite di competitività, è possibile che si inneschi un fenomeno imitativo di ripresa. Anche se la moneta unica complica non poco le cose: le nostre caratteristiche rendono il cambio con le valute dei Paesi in cui esportiamo sopravvalutato per noi e vantaggioso per i partner europei più forti di noi. Ma il vero problema sono i servizi, un cahier de doléances che ci si è perfino stufati di rileggere, dalla giustizia alla sanità, ai trasporti, alle farraginosità di una macchina burocratica pachidermica e invadente, le disfunzioni di una pubblica amministrazione lenta e inefficiente, e permeabile alla corruzione. Null’altro da fare allora che aspettare il lento evolversi di stagioni politiche? Null’altro che raccogliere le forze per muoversi quotidianamente all’interno dei tanti vincoli, e prepararsi ad esercitare ogni 5 anni il proprio diritto di elettore? Questo stato di cose non ci è piovuto addosso dal cielo; il Paese non è diviso in due, da una parte i pochi che ne godono i vantaggi, e tutti gli altri che ne pagano i costi. Noi non siamo solo impegnati in una quotidiana corsa ad ostacoli e in una periodica votazione: noi pensiamo, e ci diamo spiegazioni di ciò che accade. Le spiegazioni che ci diamo non sono un inutile brusio nel cervello, ma la causa e il rimedio a ciò che lamentiamo. Un esempio? Il modo in cui pensiamo il nostro rapporto con lo stato. È un modo intimamente contraddittorio: da un lato ci lamentiamo di come lo stato (non) funziona, dall’altra vediamo nello stato la garanzia di una soluzione. Prendiamo il referendum del 2011 sull’acqua. L’acqua non è un bene pubblico nel senso degli economisti, dato che, a differenza dell’illuminazione stradale, è possibile limitarne l’accesso, e il consumo di qualcuno riduce la disponibilità per qualcun altro: l’acqua è una delle tante risorse di cui abbiamo bisogno. Invece gli acquedotti sono un monopolio naturale. Chiediamoci: sostituire un cattivo gestore con un altro è più facile se il gestore è pubblico o se è privato? Domanda perfin superflua: se il gestore è pubblico non solo è difficile cacciarlo, ma perfino sulla nomina dei suoi amministratori è facile che influiscano considerazioni diverse da quella dell’efficienza professionale. A ciò si aggiunga che di solito i gestori pubblici hanno scarsi incentivi a ridurre i costi e molti mezzi per ricavare benefici privati a spese della collettività, e che il prezzo “politico” induce a sprechi. Ragionamenti analoghi si possono fare per sanità e scuola, previdenza e informazione: la garanzia di un servizio per tutti non ha nulla a che fare con la proprietà pubblica o privata di chi lo eroga, anzi il più delle volte nel primo caso diminuiscono qualità e possibilità di scelta ed aumenta il costo. Il referendum sull’acqua non è stato solo un brutto episodio di populismo politico: ha avuto un effetto negativo sugli investimenti in Italia. Dove l’effetto diretto, meno aziende che spendono meno soldi in modo meno efficiente, è la parte minore. Il danno maggiore è dato dal fatto che tutti hanno potuto constatare che l’Italia è un Paese in cui vengono prese decisioni così assurde, in cui una parte dei cittadini ritiene che sia più conveniente e giusto che sia lo Stato a possedere i tubi, a girare i rubinetti e a mandare le fatture. Lo Stato ha conoscenze imperfette, enormemente inferiori a quelle che sono disperse nelle competenze e conoscenze dei suoi cittadini; quindi le sue decisioni sono perlopiù grossolane, quando non ispirate a proteggere gruppi di interesse organizzati. Non si propugna certo di abbatterlo, come volevano gli anarchici, è sufficiente non chiedere a lui di darci efficienza ed equità. Perché non ne è in grado.
Fonte: Sole 24 Ore del 17 marzo 2012Lo Stato gestore e i costi impropri dei servizi
L'autore: Franco Debenedetti

Franco Debenedetti è nato il 7 Gennaio 1933 a Torino. Laureato in Ingegneria Elettrotecnica al Politecnico di Torino, si è specializzato in Ingegneria Nucleare. Nel 1994 lascia tutte le cariche operative al momento della candidatura al Senato della Repubblica. Viene eletto nel Collegio di Torino (XII legislatura). Rieletto nel 1996 e nel 2001 (legislature XIII e XIV). Svolge una intensa attività di pubblicista sui principali quotidiani italiani (La Stampa, Corriere della Sera, Sole 24 Ore, Il Riformista). Nel giugno 1996 gli viene assegnato dal Club dell'Economia il premio Ezio Tarantelli per la migliore idea dell'anno 1995 in Economia e Finanza.E’ socio ordinario di Aspen Institute Italia. Dal 1976 consigliere di amministrazione di CIR, Cofide. Dal 1998 consigliere della Fondazione Rodolfo Debenedetti. Da agosto 2006 consigliere di amministrazione Piaggio & C. S.p.A. Da dicembre 2006 consigliere di amministrazione Iride S.p.A. Da maggio 2007 Presidente di China Milan Equity Exchange. Dal 2008 membro del Club dell’Economia. E’ autore di: Ritagli (1996); Sappia la Destra (2001); Non basta dire No (2002); La Rai privata e i suoi nemici (2003); Grazie Silvio (2005); Quarantacinque percento (2007). Ha curato e introdotto: Perché essere ottimisti sul futuro del lavoro di M. Rojas (1999); Occidente contro Occidente di A. Glucksmann(2004); La Public Company e i suoi Nemici di M. Roe (2004).
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