• venerdì , 22 Novembre 2024

L’Italia unita sul debito

Illegalità diffusa, evasione fiscale, nepotismo, ostilità al merito. Chiunque legga i rapporti degli economisti greci sugli sviluppi che hanno portato il loro paese oltre l’orlo del burrone non può non riconoscere un sapore di casa. Piccoli esempi: le agenzie immobiliari che registrano gli acquisti di appartamenti negli ultimi 15 anni hanno sistematicamente dichiarato dimensioni inferiori al reale per aggirare le imposte.
Non solo gli acquisti importanti comportano pagamenti in nero, ma spesso anche i servizi quotidiani dell’idraulico o del medico. I reati spesso non sono denunciati. Il senso d’illegalità è così diffuso da non essere percepito come tale. È noto il caso dei dipendenti del Parlamento che hanno occupato i parcheggi della stampa accreditata colpevole di aver reso conto dei loro privilegi (compresa la sedicesima mensilità).
L’oscurità diventa uno stato naturale. La tolleranza nei confronti dei reati si alza anno dopo anno, agevolando gruppi d’interesse che stabiliscono reti di collegamenti affaristici e politici che in italiano chiameremmo “cricche” e che influenzano l’azione dei governi.
È evidente che ci siano enormi differenze strutturali tra i due paesi, ma se alcuni caratteri vi sembrano familiari avete probabilmente ragione. Che cosa ha fatto sì allora che l’Italia non finisse come la Grecia? Gli italiani sono arrivati alla crisi temprati da quasi due decenni di diffidenza nei confronti del debito pubblico. Mentre in Grecia la quota di cittadini che pagano le imposte sui redditi è minoritaria – e quindi la maggioranza è indifferente al livello del debito -, in Italia il tema fiscale è ben presente nella testa di tutti gli elettori.
Così come nella Gran Bretagna di metà Ottocento l’abolizione delle leggi sul grano fu preceduta dalla costruzione decennale del consenso popolare per il libero commercio, così in Italia la disciplina di bilancio ha richiesto quindici anni – benché poco uniformi – di convincimento delle virtù fiscali importate dall’Europa e conculcate dai mercati. E ciò ha sorretto nelle ultime legislature l’impegno a un virtuoso rigore.
Aumenti della spesa pubblica di cinque punti di Pil tra il 2004 e il 2008, come quelli avvenuti in Grecia sotto Kostas Karamanlis, avrebbero creato proteste tra gli elettori italiani preoccupati dal rischio di tasse future. Non siamo ancora al livello dei tedeschi che a fine 2009 si opposero ai tagli alle tasse progettati dal nuovo governo, ma non siamo tanto lontani.
La diffidenza italiana nasce dal fatto che buona parte dell’attività politica nel nostro paese è stata screditata negli anni Novanta. Sottoposta a scrutinio – con metodi anche poco garbati – da parte dei media, del potere giudiziario oltre che dei mercati. Non si tratta purtroppo di controlli sistematici, né neutrali e si può essere poco o molto critici dei media o anche della giustizia in Italia, ma non si può negare che la loro presenza sia vistosa e avvertita.
Per intenderci, in Grecia non tutte le sentenze dei tribunali sono esposte al pubblico scrutinio. Così come non sono pubblici i verbali delle commissioni parlamentari. Il controllo del potere esecutivo su quello legislativo è così forte da rendere inerme l’opposizione, come dimostrerebbe la dichiarata ignoranza di Papandreou sulle reali condizioni del bilancio pubblico ereditato nell’ottobre 2009.
Quanto ai media, i greci stessi ne riconoscono la scarsa autonomia critica. In Italia se ne può discutere (per amor di eufemismi) l’autonomia, ma non la vena critica. Il carattere polemico è anzi così prevalente da essere talvolta qualunquista, da non distinguere gli aspetti strumentali da quelli fondamentali per la democrazia, mettendo tutto su uno stesso piano emotivo.
Il rumor bianco creato da una diffidenza nichilista giustifica quel tipo di “sfiducia negli altri” cui Alberto Alesina su queste colonne attribuisce l’impossibilità di sviluppare una società del merito attraverso arbitri non sospetti e riconosciuti. È però quella stessa “sfiducia” che ha tenuto sotto scacco ogni tentativo di aumentare – e simmetricamente anche di ridurre – il debito pubblico. La sfiducia è cioè nel bene e nel male il cemento dell’immobilismo: un riparo dalle crisi e una zavorra per la crescita.
Per volgerla in positivo la sfiducia va trasformata in spirito critico. E a questo non basta la retorica sulla crescita che risolve tutti i problemi sociali. Per ragioni, quasi tutte legate all’integrazione europea, la Grecia tra il 1996 e il 2008 è stato il paese dell’euro con il maggior tasso di crescita annuo (superiore al 4%) ma questo è servito soprattutto ad aumentare a dismisura le rendite di posizione dei gruppi d’interesse e a rendere invisibili gli squilibri dell’economia fino al collasso del 2010.
Per ricreare “fiducia critica” bisogna sottrarre alla distorsione degli interessi di parte una serie di temi. A cominciare dalla politica fiscale che è diventato il linguaggio attraverso cui si esprime la diffidenza tra individui, gruppi, professioni e regioni. Inserire in Costituzione i limiti al bilancio pubblico, come chiedono i tedeschi, non è affatto una perdita di sovranità e l’Italia dovrebbe farlo subito.
Lo stesso federalismo può essere un contributo a ridurre la sfiducia. Inoltre bisogna riportare le funzioni arbitrali in capo a istituzioni di garanzia che non vengano umiliate, come spesso accade alle authority, ma di cui vada invece curata assiduamente la qualità e rispettata l’autorevolezza. Progetti che consentano agli italiani di fidarsi, come si fidano del Capo dello Stato, dell’Europa e di poche altre istituzioni e personalità. Vanno rafforzati non i talk show, ma i principi di trasparenza e di responsabilità.

Fonte: Sole 24 Ore del 5 febbraio 2011

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