• domenica , 22 Dicembre 2024

L’Italia taglia l’italiano

Ridotte le cabine degli interpreti nelle istituzioni Ue. Per risparmiare una milionata. Era davvero il caso?
L’Italia taglia l’italiano in Europa, risparmio previsto: un milione di euro. Costretta dalle esigenze dell’austerità, la Farnesina ha dato disposizione di ridurre il numero delle riunioni comunitarie in cui i nostri delegati potranno contare al 100% sul lavoro degli interpreti.
Da luglio – in almeno un terzo degli incontri – politici, funzionari, esperti e tecnici ministeriali avranno facoltà di parlare la lingua di Dante, ma dovranno ascoltare quella di Shakespeare, Molière, Goethe o Cervantes. Gli altri grandi dell’Ue, si vede dall’elenco, hanno deciso di non lesinare sull’idioma nazionale. Questione di stile, e non solo.
Il meccanismo è composito, come sempre nel condominio Europa, dove le lingue ufficiali sono ventitré. Il processo decisionale è fondato sull’attività di quasi 160 entità di lavoro, si va dal Consiglio dei ministri (Esteri, Economia, eccetra) ai comitati tecnici attivi nella fase legislativa come nel controllo dell’attuazione delle norme. Sulla carta tutti hanno diritto di esprimersi a Bruxelles come a casa. Però a determinate condizioni.
Poco meno di una decina di anni fa, sempre per ragioni di austerità, i governi hanno stabilito che l’interpretariato non sarebbe stato più integralmente a carico delle casse Ue. Sino a una certa soglia (2,4 milioni, dicono fonti diplomatiche) il segretariato del Consiglio avrebbe garantito la spesa. Oltre, si sarebbe proceduto secondo il sistema «richiedi & paga», con responsabilità finanziaria delle capitali da decidere caso per caso. In pratica, finita la dote europea, ognuno avrebbe stabilito se concedersi la traduzione “live” oppure no.
L’Italia ha deciso di tenere la borsa chiusa, non andrà oltre la franchigia Ue. Terrà l’interprete nei due sensi in 53 gruppi di lavoro, ovvero le ministeriali e gli incontri più rilevanti dal punto di vista politico. Nelle altre riunioni avremo il servizio “passivo”, ci si potrà esprimere in italiano, ma nessuno tradurrà ciò che dicono gli altri. Scelta finanziariamente inevitabile, a quanto pare. Anche se il rappresentante permanente italiano presso l’Ue, Ferdinando Nelli Feroci, sottolinea che si «tratta di una decisione temporanea per esigenze di bilancio».
Fra gli interpreti si registra scoramento. C’è chi ne fa un fatto culturale e legge «l’ennesimo atto di disinteresse nei confronti della difesa dell’italiano in Europa», constatazione che trova contenuto nella circostanza secondo cui Francia, Germania, Regno Unito e Spagna hanno deciso per il servizio pieno. Vale anche l’argomentazione dello svantaggio competitivo, «perché per quanto parli bene una lingua, non è mai la tua, è una difficoltà in più che gli altri i grandi non avranno». Ultimo scoglio, i posti di lavoro. Oltre gli interpreti delle istituzioni Ue si contano 200 liberi professionisti che vengono ingaggiati alla bisogna e che, in ragione dell’orientamento del governo, rischia di perdere una buona parte del lavoro.
«Sarà fatto il possibile per ripristinare il vecchio regime dall’anno prossimo», assicura Nelli Feroci, mentre una fonte diplomatica minimizza la portata del taglio, dicendo che nel prossimo semestre molti gruppi non si riuniranno e la sforbiciata effettiva è solo di un terzo (32 gruppi senza traduzione su 85 che saranno effettivamente convocati).). Ma allora anche il risparmio sarà inferiore. Il che ci lascia perplessi a chiederci se il gioco – in termini di immagine, saldi e competitività – valga davvero la candela.

Fonte: La Stampa del 5 giugno 2012

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