«Voi avete un grande sistema di piccole imprese. Il tessuto ideale per sfondare in rete. Ma serve un progetto. Ne ho già parlato con il vostro governo…».
Intervista a Eric Schmidt,numero uno del gigante americano Eric Schmidt è il ministro degli Esteri di Google. Gira per il mondo, tratta con i governi e con le autorità di regolazione, mentre i due fondatori, Larry Page e Sergei Brin, gestiscono il gruppo di Mountain View in California. Google ormai è una potenza: in maggio ha avuto un miliardo di visitatori unici. Un record che dice tutto. E’ inoltre la ventesima società per capitalizzazione di borsa. Di passaggio in Italia per una serie di incontri, Schmidt, che è presidente della società che ha inventato il più famoso motore di ricerca, ha risposto alle domande de “l’Espresso”.
L’innovazione per Google è una religione. Che cos’è, nella sua visione, l’innovazione?
Nei business tradizionali innovare vuol dire trovare nuovi modi di servire i propri clienti, per esempio utilizzando il Web. Innovare non significa necessariamente arrivare a una nuova scoperta tecnologica. La crescita globale dipende in ampia misura da business che già esistono, da imprese che innovano migliorando il modo in cui servono i loro clienti. Un esempio è il modo in cui i produttori di aeroplani hanno cambiato il modo di produrre. Prima facevano tutto da soli, poi hanno affidato ad altre imprese la produzione di singoli pezzi. Qui l’innovazione consiste nel coinvolgimento di altre aziende: tutte contribuiscono con i propri mezzi alla costruzione dell’aeroplano, che è molto costosa, e partecipano alla divisione dei profitti. Questo è un esempio di innovazione del business, non tecnologica. E ce ne sono molti altri.
Che cosa è più importante per l’innovazione? Un sistema di università efficienti? La disponibilità di fondi pubblici? La presenza di venture capital? La spesa per la ricerca delle grandi imprese?
L’innovazione ha bisogno di un sistema. Prima di tutto bisogna riformare le università in modo che formino persone sempre più capaci. In Italia, per esempio, tranne pochissime, le università non figurano nelle posizioni alte delle classifiche internazionali. Sì, ci sono Bologna, Pisa, Roma, ma sono poche. La maggior parte degli atenei nelle classifiche non figura. E allora si potrebbero fissare degli obiettivi di miglioramento del livello educativo facendo dei test comparativi. Attenzione; è un problema che abbiamo tutti, Stati Uniti compresi. Il miglior venture capital è quello privato. Lo Stato non dovrebbe partecipare con dei soldi ma solo assicurare che il fisco e la legislazione non ostacolino l’investimento privato. In Germania, per esempio, l’industria del software è una delle meno sviluppate del mondo avanzato. E lo sa perché? Perché se una nuova società fallisce l’imprenditore rischia di andare in prigione. E una delle caratteristiche delle imprese finanziate dal venture capital è che la maggior parte di esse falliscono. Quindi se un imprenditore vuole fare un investimento innovativo e rischioso sul software esclude la Germania. Quanto al finanziamento pubblico, deve andare alle università. Le imprese devono essere in grado di finanziare da sole la propria ricerca.
E le lobby come agiscono?
Ci sono potenti interessi che frenano la disseminazione dei mercati in tutti i paesi. Le media companies non vogliono che le Internet companies abbiano successo. E nemmeno i politici perché non vogliono essere criticati. Bisogna abituarsi a pensare che i cittadini sono più ricchi con un’ampia connettività, con una grande apertura e non sotto la minaccia della legge. Se guardi a ogni legge, a ogni organismo regolatorio, ti chiedi: come si fa a essere sicuri che gli imprenditori e le nuove idee di business vadano avanti? Se fossi il governo li riunirei in una stanza e domanderei: qual è il vostro problema più grosso? Il fisco, le regole, la mancanza di finanziamenti? In America, per esempio, al momento il problema principale è la mancanza di capitali. Perché dopo la grande crisi i mercati finanziari hanno chiuso i rubinetti.
Le Pmi sono la spina dorsale dell’economia italiana mentre le grandi imprese sono sostanzialmente sparite. E’ questa struttura che spiega la mediocre performance dell’economia italiana in termini di crescita del Pil e della produttività, e di innovazione?
Una delle principali conseguenze della globalizzazione è che le piccole imprese hanno difficoltà a conquistare la loro parte del mercato mondiale. La globalizzazione favorisce le grandi imprese, che hanno i soldi e sfruttano le economie di scala. Che cosa può fare il governo? Può decidere che queste imprese debbano fondersi per diventare più grandi e incoraggiarle a farlo. Inoltre può creare maggiori opportunità. Google può essere molto d’aiuto in questo senso. Noi possiamo mettere le piccole imprese in condizione di affacciarsi sul mercato globale, possiamo materialmente cambiare il loro modo di lavorare. Basta un sito, un motore commerciale, un modo insomma di avvicinare i loro prodotti ai clienti. Stiamo lavorando a un progetto per l’Italia. Vogliamo aiutare direttamente le piccole imprese a crescere e a internazionalizzarsi, addestrandole a farlo. Perché manca la gente idonea a fare quello che ho appena descritto. Occorre avere l’ambiente adatto per muoversi in questa direzione. E allora le università devono formare ragazzi che a 22-24 anni credono nel potenziale della Rete e hanno voglia di fare quattrini. E spargerli per l’economia. E’ importante perché in Italia l’uso della Rete è molto diffuso. Ma non per il business. Io sono convinto che la crescita economica in Italia deriverà dalle Pmi che vanno online e che ampiano così il loro mercato. E’ nel loro interesse, nell’interesse di Google, nell’interesse del governo, nell’interesse dei cittadini.
Lo ha detto al governo?
E’ esattamente quello che ho detto al governo. Ai ministri Romani e Tremonti, anche al leader dell’opposizione e ai rappresentanti dei governatori e dei sindaci. Segnalo anche uno studio realizzato da The Boston consulting group (http://www.fattoreinternet.it/): nel 2010, Internet ha contribuito al Pil italiano con 31,5 miliardi di euro, pari al 2 per cento. Questo dato sarà più che raddoppiato entro il 2015. In uno scenario conservativo l’Internet economy rappresenterà 59 miliardi di euro, pari al 4,4 per cento del Pil italiano, con un tasso di crescita annuo del 18 per cento.
Quali saranno secondo lei le maggiori scoperte tecnologiche nell’immediato futuro?
Nei prossimi cinque anni lo sforzo maggiore avverrà nella connessione degli apparati mobili a Internet e attraverso Internet a dei grandi server. Il futuro è nelle applicazioni che consentono al telefono mobile di collegarsi ai grandi sistemi. E’ il cloud computing. E il futuro sono gli Iphone e gli Ipad.
Curioso che nomini i prodotti di un concorrente…
Sono buoni, è fuori discussione. E sono i più diffusi. Stanno ancora guadagnando quote di mercato così come i nostri Android. Nei cinque anni successivi invece saranno i telefoni a diventare molto più veloci e meno costosi, otto volte più veloci e otto volte meno costosi. E’ un grosso cambiamento: uno smartphone passerà da 500 a 200 dollari. Il che significa una penetrazione molto più ampia e la moltiplicazione delle applicazioni.
Quindi lei punterebbe i suoi soldi ancora sull’Ict?
Io ho già investito nell’Ict: i miei soldi sono lì! Quanto alle altre industrie, la mia sensazione è che il futuro sia della biologia e delle nanotecnologie. Faccio parte del consiglio degli esperti di Obama e abbiamo guardato a questi settori con attenzione. Ciò che sta succedendo è che le tecnologie stanno diventando sempre più potenti e che tutt’a un tratto si riesce a fare delle cose che non si potevano fare prima: nuove medicine, nuovi materiali.
Obama ha puntato molto sull’innovazione. Ha promesso un grande balzo in avanti soprattutto nell’energia e nelle rinnovabili in particolare: l’America lo sta seguendo?
No. E lo dice un sostenitore di Obama che, quando divenne presidente, avviò una serie di iniziative per avere una rete di trasmissione dell’energia elettrica con maggiore capacità di accumulazione e una certa quota della produzione realizzata con energie rinnovabili. Circa un anno fa c’era una serie di disegni di legge che erano quasi passati al Congresso ma che poi non sono passati. Poi c’è stata la recessione, e quindi è cominciata la campagna elettorale per il 2012: qualsiasi cosa accada non accadrà quest’anno. Bisognerà aspettare. Io penso che il sistema americano sia molto dipendente da particolari gruppi di interesse e c’è un’ampia evidenza che questi interessi particolari avranno effetti deleteri, combatteranno contro queste innovazioni. L’Europa è molto, molto avanti in questo campo.
Una posizione non comune…
Non necessariamente. Io penso, ma è la mia opinione, che l’America dovrebbe intervenire molto aggressivamente su questo terreno. Si potrebbero creare tanti posti di lavoro e sarebbe un bene sia per la politica economica americana sia per i cittadini. Segnalo un altro studio in cui si dimostra che con una politica aggressiva nel campo delle rinnovabili si conseguirebbero risultati straordinari: entro il 2030 il Pil potrebbe aumentare di 155 miliardi di dollari l’anno, si creeerebbero 1,1 milioni di nuovi posti di lavoro netti, si ridurrebbe la bolletta energetica delle famiglie di 945 dollari l’anno e il consumo di petrolio di 1,1 miliardi di barili l’anno. Infine si abbasserebbero le emissioni di CO2 del 13 per cento. Dovrebbe essere una scelta fatta indipendentemente dalla politica perché porta posti di lavoro per la gente e la disoccupazione è il nostro problema principale. Google è una grande sostenitrice delle energie rinnovabili. Abbiamo investito, come società e ne sono molto orgoglioso, nelle energie rinnovabili, eolico e solare, e speriamo di farci dei soldi.
Come giudica la condanna inflitta a Milano a tre dipendenti di Google per il video delle molestie a un ragazzo down caricato su YouTube?
Il video di Milano era terribile. L’abbiamo tolto da YouTube in poche ore. E’ un reato caricare su YouTube un video come quello. Noi non abbiamo la possibilità di controllare tutto quello che viene caricato. Sono 40mila al minuto i video caricati su YouTube. Non è possibile. Se la legge ci chiedesse di controllarli tutti prima di caricarli, non ci sarebbe YouTube. E noi crediamo fermamente che la decisione dei giudici fosse sbagliata. Mi creda: noi siamo convinti che quel video fosse mostruoso, non c’è discussione su questo punto. Ma le persone che sono state condannate non c’entravano nulla. E questo è scorretto. E’ imbarazzante per un sistema giudiziario. Siamo ricorsi in appello. E faremo il possibile per ottenere giustizia.
Non è che state diventando troppo potenti?
Google è una società che opera nel rispetto di alcuni principi. Noi diciamo a tutti che cosa facciamo e in base a quali principi operiamo. E vogliamo essere giudicati per come rispettiamo quei principi. Quando sbagliamo chiediamo scusa. Un nostro ingegnere ha fatto un errore con sua moglie ma ha chiesto scusa. E noi abbiamo informato le autorità competenti. Ma quello era un errore. Ed è un caso solo su 20 mila ingegneri. Per Google rinunciare alla tutela della privacy sarebbe una follia.
Le autorità antitrust stanno indagando su Google in Europa e negli Usa. Come reagirete?
La commissione europea ha raccolto le proteste dei nostri concorrenti, e non c’è da meravigliarsi. Sono stato alcune volte a Bruxelles e ho assicurato la nostra massima collaborazione. Non ci hanno ancora detto quali sono le loro preoccupazioni, finora. E non penso che questo accadrà presto. Ci vorrà un po’ di tempo. Negli Usa si è saputo che è in corso un’indagine analoga, almeno così hanno detto coloro che hanno fatto uscire la notizia. L’Antitrust sta ascoltando i nostri concorrenti. E noi diremo anche a loro che siamo pronti a collaborare. Ma anche in questo caso non sappiamo di che cosa siamo accusati. Io penso che Google operi nel business dell’informazione. E mi fa impressione che i governi non vedano quello che facciamo.
E’ vero che non pagate le tasse in Europa? E che spostate i vostri ricavi nelle Bermuda per eludere il fisco europeo?
No, sono tutte chiacchiere. Le paghiamo in Irlanda, dove abbiamo il quartier generale europeo con 2 mila dipendenti, perché c’è un programma per incoraggiare gli investimenti delle imprese americane. Ma paghiamo le tasse in tutti i paesi in cui operiamo, inclusa l’Italia. Abbiamo l’obbligo verso gli azionisti di adottare una struttura fiscale efficiente ma rispettiamo le leggi di ciascun paese in cui operiamo.
Quanto sarà grande il business del borsellino elettronico?
Quello che abbiamo predisposto sarà in grado di gestire qualsiasi carta di credito, assegno, valuta, debito e credito, dovunque. Perché il nostro borsellino è un sistema open e la banca può lavorarci come meglio ritiene. Lo stiamo facendo per Android e per Iphone, sarà pronto entro l’estate. Ci serve che i produttori di smartphone inseriscano un chip che garantisce la sicurezza della carta di credito. Sarà un grande business, da molti miliardi di dollari, davvero molti. Il concorrente sarà probabilmente Apple, forse Microsoft. Noi siamo i primi, comunque.
Spariranno i giornali su carta?
No, no. Quello che succederà è che l’Ipad si diffonderà. Sull’Ipad si può sfogliare il giornale in modo tradizionale ma si può anche andare più a fondo. L’Ipad mostra un percorso e molte imprese si fanno pagare la versione per Ipad per accrescere i loro volumi. Io penso che la versione cartacea durerà ancora a lungo ma molta gente utilizzerà anche la versione per Ipad o altri tablet. Ma la transizione sarà lunga. Sarei sorpreso del contrario.
Non come è accaduto nella fotografia?
No, ci vorrà un po’. Facciamo l’esempio di Amazon che ha annunciato di aver venduto più ebook di libri. Per me è stato uno shock: non me lo aspettavo. Nel caso della fotografia quando la qualità delle fotografia digitale ha raggiunto quella della tradizionale, il rapporto costi-benefici era talmente squilibrato che il cambiamento è stato istantaneo. Nel caso dei giornali ci sono aspetti culturali da non sottovalutare. A me, per esempio, piace sentire la carta sotto le dita, la dimensione dei fogli, insomma è una questione di feeling, mentre i giovani non ne vogliono sapere. Questo non significa che i giovani non cerchino le notizie, anzi ne consumano di più.
Vale lo stesso per la tv generalista?
No, è diverso. L’industria della tv è molto regolamentata. Noi stiamo lavorando per avere su YouTube i contenuti delle tv, permettendo ai consumatori di pagare per fruirne. Alla fine penso che gran parte dei contenuti tv saranno anche su YouTube ma dovremo pagarli.
Davvero Internet è come una fogna in cui scorre qualsiasi tipo di informazione senza controlli? Questa è una mia citazione! Ero molto preoccupato che Internet stesse diventando una fogna, già cinque anni fa. In un certo senso è vero perché c’è tanta informazione inutile o scadente. Ma questo ci porta ad apprezzare Google ancor di più perché il suo lavoro è mettere in classifica, limitare, circoscrivere. E se noi facciamo bene il nostro lavoro ordiniamo le informazioni in modo che le prime tre siano le migliori tra migliaia.
Lei è stato nel board di Apple e capo di Google. Che differenza c’è tra le due società?
Sono due compagnie smart. Steve Jobs, un mio amico personale, è molto brillante. Le filosofie dei due gruppi sono assai diverse. Apple è chiusa: studia il prodotto perfetto, fino all’ultimo dettaglio, compreso il lancio, per farci molti soldi. Google è aperta, ha un sacco di partner, lascia sperimentare tutto quello che si può. E non penso che una delle due sia meglio dell’altra: vanno bene entrambe pur essendo molto diverse tra loro. E penso che il confronto tra questi due sistemi sia molto importante per il futuro. Perché sarà il consumatore a beneficiarne.
Le compagnie telefoniche vorrebbero più soldi da Google, Apple, Facebook, i cosiddetti over the top. Glieli darete?
Naturalmente sarebbero contenti se noi gli staccassimo un bell’assegno. Ma cerchiamo di capire che cosa succede. Loro fanno un duro lavoro che richiede molto capitale e noi abbiamo bisogno di loro per avere successo. Abbiamo bisogno delle loro reti. D’altra parte se gli over the top non esistessero loro non avrebbero la crescita dei ricavi che hanno. Perché la gente vuole i nostri contenuti non altro. Quindi noi abbiamo bisogno di loro, ma loro hanno bisogno di noi. Io gli ho detto questo: se vi facciamo un assegno non risolviamo il problema. Come industria dobbiamo costruire insieme prodotti che possiamo vendere a un prezzo più alto. E dividere il ricavato. Si può raggiungere un accordo per fare prodotti di qualità che aumentino i ricavi.
L’Italia rilanciatela con Google”
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