• domenica , 22 Dicembre 2024

L’Italia agli occhi degli esperti indipendenti

Quando la crisi economica morde nel vivo la società, ecco che si moltiplicano opinioni, interpretazioni, polemiche, pretese e anche ricette per uscirne, tutte secondo l’ottica e gli interessi di cui si fa portatore ogni italiano o europeo coinvolto nelle conseguenze. Ne segue una cacofonia così assordante che per il comune italiano è difficile raccapezzarsi e farsi un’idea realistica e spoglia di interessi di parte sul reale stato dell’economia e della finanza italiane e sulle loro prospettive. Donde quel senso di sorpresa, oggi assai diffuso, che dopo tante misure di austerità lo spread sui titoli pubblici non scenda stabilmente sotto i 500 punti base e i rendimenti rimangano su livelli insostenibili.
In questi frangenti senza dubbio gli gioverebbe conoscere le valutazioni di esperti indipendenti, che analizzino il caso da una certa distanza non solo geografica, ma dagli interessi in ballo. Questa occasione gli è offerta ultimamente dall’incontro annuale dell’Associazione americana degli economisti (AEA), che si è appena conclusa a Chicago. Una tre giorni dibattiti intensi tra esperti di tutto il mondo su centinaia di analisi e ricerche, con la partecipazione di premi Nobel, finanzieri, sociologi e giornalisti delle testate più quotate.
Contrariamente agli anni scorsi, l’Italia è stata citata più volte nelle analisi e negli esempi, con conclusioni che, pur non essendo vangelo, possono aiutare l’italiano medio a capire perché i mercati finanziari non nutrono fiducia nella sua uscita dalla crisi economica.
Il primo responso, che è risuonato forte e chiaro, è che il Paese non è più in condizioni di poter onorare il debito pubblico accumulato, e ciò nemmeno in un futuro che non sia troppo lontano. Il motivo principale sta nella costatazione che in presenza di un debito al 120% del PIL, bassa crescita e vincoli esterni, non vi è austerità che possa fare uscire dalla crisi debitoria. In termini più grezzi, che sono stati usati, si ritiene che il Paese sia già insolvente (o fallito) e non potrà quindi che chiedere la ristrutturazione del suo debito. Una conseguenza questa molto grave che, per aiutare i non esperti a comprendere, significa allungamento forzato delle scadenze, decurtazione dei rimborsi, riduzione degli interessi corrisposti e altri vincoli sulla negoziabilità dei titoli pubblici. Un risultato che mette a rischio sia i risparmi degli italiani, sia la tenuta delle banche, con la prospettiva di doverle salvare tramite la nazionalizzazione. Per non citare il ricorso alla solita arma dell’inflazione, che potrebbe salvare le banche ma non buona parte del risparmio degli italiani.
Stranamente, ma non troppo, in Italia né gli esperti, né le forze sociali hanno mai considerato o discusso lo scenario non immaginario di una bancarotta dello Stato, mentre si affannano a ripetere che il caso Italia è diverso da quello degli altri paesi europei, adducendo tra l’altro che è “troppo grande per poter fallire”, leggi “essere lasciato fallire”. Al contrario, gli esperti stranieri a Chicago hanno ripetutamente accomunato l’Italia ai PIGS, pur ammettendo che Germania, Francia ed UE potrebbero essere costrette a venire in suo soccorso per scongiurare le disastrose conseguenze sul sistema europeo.
Ma quanto ha giocato il fattore sistemico nella crisi debitoria italiana, visto che in Italia taluni insistono nell’affermare che si tratta di una crisi importata dall’estero? La risposta è stata data con un’analisi econometrica che stima che il Paese sia in Europa tra quelli che ha sofferto maggiormente del contagio della crisi della Grecia e degli altri PIGS. Tuttavia, secondo queste stime, mentre il 31% circa della perdita di fiducia dei mercati è imputabile al contagio,il resto ha natura endogena al Paese.
Più esplicitamente,la responsabilità maggiore risiede nelle politiche seguite all’interno, che a lungo andare sono divenute insostenibili.
Basterebbe allora una forte dose di austerità per ripristinare crescita e solvibilità, ma così non è, stando a una delle analisi presentate. Dallo studio comparato di 174 programmi di stabilizzazione economica attuati da paesi in crisi finanziaria, emerge che quando l’austerità è realizzata principalmente con aumenti delle imposte i casi d’insuccesso sono di gran lunga prevalenti.
L’opposto si ha quando il fulcro dell’aggiustamento è costituito da tagli della spesa pubblica e riforme per aumentare concorrenza, efficienza e produttività. Ebbene, la cura Monti è stata finora imperniata sul prelievo fiscale, piuttosto che sul ridimensionamento della spesa e sulle riforme di struttura.
Possiamo credere a queste analisi o alle valutazioni di una possibile bancarotta? Invero provengono da esperti ed accademici così noti in campo economico che non è il caso neanche di farne il nome. Hanno senza dubbio un solido fondamento nell’esperienza del passato, ma appaiono incomplete o poco consapevoli delle risorse a disposizione degli italiani e del loro spirito di sacrificio. Ad esempio, esiste un patrimonio di beni pubblici che, sebbene molto inferiore alle stime del Tesoro, potrebbe essere utilizzato in tempi non lunghi per ritirare debito pubblico pari all’incirca a un quinto del PIL. Anche il risparmio degli italiani, se non è minacciato da decurtazioni selvagge, potrebbe incrementarsi e servire a generare risorse per ritirare debito dal mercato. Si consideri anche che l’Italia ha dato prova nei momenti di crisi di saper stringere la cinghia per tornare a essere competitiva, senza andare di fatto in bancarotta. I margini per migliorare la produttività inoltre ci sono con riforme appropriate del lavoro, dei servizi pubblici e del funzionamento del sistema.
Quello che rileva, tuttavia, è che i mercati finanziari sembrano credere agli scenari evocati da questi esperti e la risonanza che ha avuto la loro diffusione in diretta sui media li rafforza nella convinzione. L’italiano medio non può quindi trascurarli, ma deve saper reagire contrastando con i fatti l’avverarsi dello scenario peggiore. In ogni caso, per la ripresa dello sviluppo dell’economia e della società dovrebbe accettare tagli consistenti alla spesa pubblica, agli sprechi, ai privilegi delle corporazioni, alla scarsa produttività dei dipendenti pubblici, alle posizioni dominanti sui mercati. Queste misure sono anche essenziali per uscire dalla crisi debitoria ed andrebbero accompagnate da una cessione di parti del patrimonio pubblico per decurtare una fetta consistente del debito. Impossibile in un orizzonte a due anni?, No, nemmeno sul piano tecnico. È solo una questione di volontà di farlo.

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