Gli indicatori di fiducia nell’economia europea fotografano il carattere epocale della crisi in corso. Come potrete leggere a pagina 9, pur con ampie differenze tra loro, in tutti i Paesi dell’eurozona i cittadini e le imprese sono impauriti da un sentimento di grave arretramento.
Si tratta purtroppo di una percezione realistica. Gli indicatori economici mostrano infatti che molti anni sono stati inghiottiti dalla crisi. È probabile che l’eurozona recupererà il livello di reddito del 2007 solo nel 2015.
Sei mesi fa avevo calcolato che i costi economici della crisi attuale erano paragonabili a quelli dei maggiori conflitti bellici regionali dell’Ottocento. Una rottura disordinata dell’euro avrebbe avuto conseguenze paragonabili a quelle del Primo conflitto mondiale. L’analogia bellica era poi diventata di uso tanto comune da farmene pentire. Tuttavia, osservata da Washington, la crisi europea ha un impatto sulla sicurezza globale che forse gli stessi europei non riescono a cogliere. Un impatto che va al di là della caduta del benessere, che l’Europa restituirebbe all’economia americana da cui nel 2008 l’ha ricevuta, e al di là anche della perdita di stabilità politica in alcuni Paesi.
È una lettura della realtà che ricavo dalle parole del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in occasione di un incontro al Centro per i rapporti Usa-Ue di Brookings, un think tank di Washington. In quell’occasione Hillary Clinton ha espresso una preoccupazione che va oltre l’Europa e gli stessi Stati Uniti, e cioè che finché la crisi dell’eurozona e il problema fiscale americano non saranno stati superati, non sarà possibile rafforzare la cooperazione economica tra Europa e Usa e creare quello spazio comune transatlantico, dotato delle stesse norme e delle stesse reti intelligenti, che sta diventando un interesse strategico. Solo una tale area comune infatti renderà possibile ai Paesi occidentali discutere con l’Asia, avendo la dimensione necessaria a far valere non tanto la propria forza commerciale, ma le istituzioni e i valori occidentali.
È un eufemismo dire che i princìpi di democrazia, di libertà e di cooperazione internazionale non sono sempre riconosciuti da tutte le economie che tra vent’anni avranno preso il posto degli Stati europei nel G7. Per questa ragione gli Stati Uniti vorrebbero che l’Europa guardasse all’Asia non solo come a un mercato, ma come a un’area nella quale esercitare influenza insieme agli americani. Ma purtroppo l’Europa è quasi interamente assorbita dal proprio dramma interno.
Solo dieci anni fa, noi europei potevamo vantare la forza del “potere trasformativo” dell’Unione europea, la capacità cioè di condizionare l’accesso di altri Paesi al nostro mercato per volume il più grande del mondo alla condivisione di valori “europei”: se volete avere benessere esportando in Europa, dovete accettare le nostre regole, il rispetto di diritti umani, il riconoscimento di princìpi di reciprocità, la difesa dell’ambiente e i requisiti di sicurezza per i lavoratori.
Era possibile porre queste condizioni di natura non commerciale quando, per Paesi come la Cina, l’Europa era un mercato di sbocco indispensabile, in grado di dettare le condizioni della produzione. Fino a pochi anni fa le maggiori imprese europee o americane producevano in Asia quasi esclusivamente per esportare nel mercato europeo o americano. Ora, come tutti sappiamo, le condizioni stanno cambiando molto velocemente.
Quando il mercato asiatico sarà pienamente sviluppato, con una propria robusta domanda interna, né l’Europa, né gli Stati Uniti avranno le dimensioni da soli per essere indispensabili agli altri Paesi. La capacità europea e americana di esercitare influenza politica nel mondo sarà molto diminuita. E, più grave ancora, la soluzione dei contrasti che dovessero insorgere tra Occidente e Oriente rischia di abbandonare il linguaggio negoziale della cooperazione commerciale, tipico della diplomazia europea, e minaccia di ritornare sul piano del conflitto politico se non addirittura di quello militare. Evitare questo scenario di incertezza ed esercitare la logica del dialogo economico è ancora alla portata di Usa ed Europa. Ma perché ciò sia possibile, è necessario che le due crisi parallele, il fiscal cliff americano e la crisi dell’eurozona, vengano risolte prima possibile.
Il lettore italiano o quello tedesco, ormai affogati in quattro anni di crisi e di tatticismi nazionali, possono pensare che una visione globale sia un pretesto per digerire nuovi sacrifici o per soluzioni affrettate. Ma il mercato globale è ormai parte fondamentale del benessere nazionale. Il 50% del reddito tedesco, per esempio, dipende dal commercio con l’estero. I dati disponibili oggi per l’Italia, dove la domanda interna è in continuo calo, fanno pensare che il volume dei profitti d’impresa derivati dal commercio internazionale sia in questo momento addirittura superiore alla quota tedesca. Senza una soluzione alla crisi dell’eurozona, l’eccesso di austerità nel settore pubblico e di deleveraging nel settore privato possono continuare ancora per anni. Gli indici delle aspettative in caduta possono aggravare la perdita di reddito e dare a essa una dimensione bellica. Come tutte le guerre, anche questa che l’Europa si sta infliggendo è inutile. Ma forse è perfino più insensata delle altre.
L’insensata “guerra” ai redditi d’Europa
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