Doveva essere il nuovo «ponte di comando» del mondo multilaterale ma, dopo un promettente esordio all’indomani della crisi finanziaria esplosa nel 2008 – gli interventi coordinati dell’Occidente e della Cina per arginare l’impatto dello «tsunami» finanziario – la formula dei vertici allargati ai venti Paesi guida che producono l’85 per cento del Pil planetario ha ben presto perso mordente.
Svanita l’emergenza economica, nelle riunioni del G-20 è evaporato anche quell’impegno tenace a cercare soluzioni comuni che aveva caratterizzato i vertici di Londra e Pittsburgh nel 2009, i primi dell’era Obama. Più rappresentativi del G-8 (il vertice degli otto Grandi), i G-20 hanno contratto la malattia di quei summit ristretti che li ha trasformati in passerelle inconcludenti. Con, in più, l’aggravante della dispersività di un consesso troppo vasto nel quale ognuno arriva con la sua agenda e le sue priorità.
Non sarà così giovdì a San Pietroburgo dove Vladimir Putin ospita un vertice mondiale che si presenta di enorme importanza, ma anche tesissimo per l’esplodere dell’emergenza Siria, per il deterioramento dei rapporti tra alcuni leader mondiali (a cominciare da quelli che abitano al Cremlino e alla Casa Bianca) e per l’emergere di nuovi problemi economici planetari: soprattutto l’instabilità che può derivare dall’interruzione dello sviluppo economico e dalle svalutazioni delle monete dei Paesi emergenti, dall’India al Brasile, e dalle politiche protezionistiche che molti di loro hanno cominciato ad adottare.
Doveva essere questo il tema centrale del G-20 russo, insieme alla gestione dei contraccolpi della exit strategy della Federal Reserve, la Banca centrale Usa che, dopo aver steso per cinque anni una straordinaria (e per lei costosissima) rete di sicurezza attorno all’economia Usa, ora cerca di ritirarla gradualmente. Si discuterà anche di questo a San Pietroburgo perché il momento è comunque cruciale con le mosse della Fed che fanno affluire capitali negli Usa e indeboliscono le altre valute, ma è chiaro che a tenere banco sarà principalmente la Siria: lo vuole Putin che, isolato per il suo appoggio al feroce Assad al G-8 nordirlandese di tre mesi fa, cerca di prendersi una rivincita, ora che in difficoltà sono Barack Obama e il premier britannico Cameron. Ma, in fondo, lo vuole anche il presidente americano che deve insistere sulla Siria in casa e all’estero alla vigilia del decisivo voto del Congresso e che preferisce lasciare sullo sfondo l’imbarazzante caso Snowden (che ha comportato, tra l’altro, la cancellazione della sua visita al Cremlino prevista proprio per oggi e sostituita in extremis con una missione a Stoccolma).
Ma, soprattutto, Obama deve usare il podio svedese e quello di San Pietroburgo per cercare di scuotere l’opinione pubblica mondiale sulla necessità di impedire che Assad usi di nuovo le sue armi chimiche. Deve però anche farla riflettere sui pericoli che correrebbe un mondo nel quale il deterrente della potenza militare Usa perde credibilità.
Certo, il mondo è stanco dell’interventismo americano ed è probabilmente stufo anche di sentir parlare del primato della nazione chiamata dal suo «destino manifesto», dal suo «eccezionalismo» a svolgere una funzione di difesa dell’ordine internazionale e di promozione della democrazia e dei diritti delle genti che la rendono diversa da tutti gli altri Stati.
È quest’America «indispensabile» che ha relegato nell’ombra la Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica che Putin vuole colpire. Ma Obama, pur avendo anche richiamato in un’intervista di pochi giorni fa il concetto della «nazione indispensabile», sa che l’opinione pubblica interna è stanca delle responsabilità, dell’impegno militare e di quello economico che tutto ciò comporta.
Mettendo il Congresso e il Paese alla prova col voto che lui stesso ha chiesto, il presidente si prende una responsabilità enorme. Se la sconfitta parlamentare di Cameron, la settimana scorsa, ha segnato l’abbandono da parte britannica del suo istinto post-imperiale, anche una bocciatura congressuale dell’intervento in Siria potrebbe innescare un processo di ridimensionamento del ruolo internazionale degli Stati Uniti.
Il discorso di Obama e l’imminenza del voto a Washington costringono il G20 a riflettere per la prima volta su quanto sarebbe maggiormente insicuro un mondo senza più l’argine del gendarme Usa.
L’inquieto gendarme
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