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L’indice di felicità al posto del Pil. Purchè non sia una fuga dalla realtà

Dopo Sarkozy, la Gran Bretagna di Cameron: in Europa si diffonde la ricerca di nuovi indici per calcolare la felicità dei cittadini, parametri alternativi al Pil per misurare il grado di sviluppo e di soddisfacimento dei bisogni di una società.
Obiettivo legittimo se si cerca di individuare politiche che, senza assorbire troppe risorse aggiuntive, possano contribuire al benessere dei popoli, magari riducendo l’inquinamento o trasformando il volontariato in vero e proprio «capitale sociale». Un po’ meno se tutto si risolve nella fuga dalla realtà di un’Europa che, da Paese sviluppato e, anzi, sazio, sta perdendo la gara del Pil con l’Asia e gli altri Paesi emergenti: un mondo nuovo che ha «fame» di crescita, dispone di abbondante manodopera che lavora sodo senza chiedere molte tutele e che ha davanti a sé spazi sterminati, dovendo costruire reti di infrastrutture moderne e un sistema produttivo competitivo.
Sembra passato un secolo e invece solo pochi anni fa faceva sorridere l’esperienza del Bhutan, piccolo Stato himalayano dove fin dal 1972 un sovrano illuminato, pioniere della nuova tendenza, aveva fatto introdurre l’«indice della felicità nazionale lorda»: un metodo, in gran parte sostitutivo del Pil (il prodotto interno lordo) per calcolare il benessere della società. E Serge Latouche, economista e sociologo, teorico della «decrescita felice», veniva invitato un po’ ovunque a convegni e seminari, dove era trattato con l’affetto che si riserva a un simpatico mattacchione.
Ma intanto i Paesi emergenti crescevano a perdifiato, le economie occidentali perdevano terreno e per i governi diveniva sempre più difficile arginare l’ira dei cittadini-elettori davanti all’inesorabile fenomeno del trasferimento di ricchezza dal Nord «affluente» al Sud del mondo, Asia in testa. La ricerca di nuovi parametri per misurare il benessere sganciati dai valori nudi e crudi della crescita della produzione di beni e servizi, un’iniziativa lanciata qualche anno fa dal governo francese e dal Canada, ha subito un’accelerazione dopo la crisi del 2008: uno shock che ha estremizzato tutti i fenomeni — boom e grandi riserve di risparmio in Asia, mentre Europa e America sono finite in recessione ritrovandosi piene di debiti — e ha accentuato l’esasperazione dei popoli.
Che questa ricerca risponda almeno in parte a esigenze reali è fuori di discussione: il Pil a volte distorce la realtà (classico l’esempio degli incendi in California che desertificano vaste aree e quindi creano povertà, ma da un punto di vista contabile fanno salire il Pil grazie alle enormi risorse investite nelle operazioni di spegnimento) ed è legittimo che nei Paesi che stentano sul piano economico ma hanno un alto tenore di vita e una società civile molto sviluppata, si tenti di andare oltre il fatturato.
Del resto in questo tentativo di rifondazione si sono impegnati celebri economisti come i premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz (che ha anche guidato la commissione Sarkozy). Né si può dire che quella di andare oltre il Pil sia un’esigenza nuova: nell’America pragmatica che resta attaccata molto più dell’Europa alla dura realtà delle cifre dell’economia reale, Robert Kennedy avvertì già in un celebre discorso di 40 anni fa che il Pil può misurare molte cose, ma non il livello di felicità di un popolo. E nel 2002 i «saggi» dell’Accademia di Stoccolma sentirono il bisogno di assegnare il Nobel per l’Economia non a uno studioso del settore ma a uno psicologo, Daniel Kahneman, celebre per i suoi studi sugli impulsi e i comportamenti che sono alla base delle scelte economiche degli individui: un vero capostipite degli studiosi dell’economia della felicità.
Cameron ora si mette sulla stessa strada: chiede ai suoi statistici di sondare lo stato d’animo del popolo britannico su vari aspetti della qualità della vita, definendo, poi, nuovi indici del benessere da integrare con quelli tradizionali. Una sfida che fa tremare i polsi agli stessi uomini che circondano il neopremier, visto che l’opinione pubblica del Paese mostra già in vari modi (l’ultimo i disordini della settimana scorsa a Westminster) di essere di pessimo umore.
Cameron potrà trarne utili spunti per le sue politiche sociali, ma dal punto di vista di un conservatore legato ai principi liberali l’esperimento ha almeno due limiti: farà emergere il peso delle crescenti diseguaglianze sociali nel malessere dei cittadini britannici e anche l’incidenza di altri fattori (come quelli legati all’ambiente) che, per essere corretti, richiedono un forte incremento dell’intervento pubblico in economia. In secondo luogo rischia di far dimenticare che il Pil è comunque centrale e insostituibile come misura dell’esposizione finanziaria sostenibile, visto che Stati e società si sono massicciamente indebitati proprio ipotecando lo sviluppo del reddito previsto per i prossimi decenni. Resteremo, quindi, incatenati al Pil ancora per qualche generazione. Cameron lo sa, ma sa anche che l’austerity che ha appena varato difficilmente favorirà la crescita economica: forse cerca un modo per coprirsi le spalle.
Barack Obama, che ha davanti a sé problemi economici non troppo diversi, continua invece a parlare ossessivamente di Pil, di crescita, di raddoppio dell’export per creare lavoro. E questo nonostante che il contesto rimanga molto negativo per lui che è un «post-kennediano» alla guida di un Paese nella cui Dichiarazione d’Indipendenza è sancito il diritto inalienabile del popolo «alla ricerca della felicità». Solo che per gli americani quello è un diritto-dovere: il dovere di rimboccarsi le maniche e il diritto di non essere intralciati dallo Stato nella libera intrapresa.

Fonte: Corriere della Sera del 16 novembre 2010

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