Il decennio si chiude male per l’economia italiana, e le prospettive sono cattive. Un biennio di espansione appena meno mediocre ci ha già portato a urtare contro i limiti fisici della crescita determinati dalla scarsità di lavoro – nonostante tassi ufficiali di disoccupazione sopra il 10 per cento – e dal drammatico deficit di infrastrutture di mobilità e trasporto. Secondo un recente studio della Federal Reserve di Washington nella seconda metà del decennio scorso la produttività totale dei fattori produttivi è diminuita, a fronte dell’aumento di un oltre un punto l’anno degli Stati Uniti. Il tasso di crescita potenziale dell’economia italiana è probabilmente disceso al di sotto del 2 per cento.
Molti, e ben noti, sono i fattori che contribuiscono a deprimere la crescita in modo permanente. Tra di essi, però, ve n’è uno poco menzionato, e tuttavia di cruciale importanza: si tratta dello stato del diritto, più precisamente del grado di tutela assicurato ai contratti e alla proprietà privata. Eppure, questo è un aspetto nel quale l’Italia costituisce un caso limite tra i paesi avanzati.
Il ruolo del diritto e del grado di tutela della proprietà privata nella crescita ha ricevuto rinnovata attenzione in relazione ai problemi della transizione da economie pianificate a economie di mercato; ma esso occupava già una posizione centrale nell’analisi del ruolo delle istituzioni nella crescita di autori come Oliver North e Mancur Olson.
Nel famoso esempio di North, il declino economico della Spagna e l’ascesa dell’Inghilterra nel secolo diciassettesimo trovano la spiegazione principale nella soluzione data al problema del finanziamento delle guerre: nel primo caso risolto con cancellazioni del debito e atti ripetuti di confisca della proprietà privata, nel secondo con l’attribuzione al parlamento di poteri di controllo sulle imposte e il bilancio del sovrano, i quali diedero prevedibilità alle pretese dello scacchiere sui patrimoni privati e affidabilità al debito pubblico.
Olson, invece, sottolinea il ruolo dei contratti nella determinazione degli investimenti e del tasso di progresso tecnologico. Gli investimenti sono una scommessa sul futuro; l’imprenditore può esser disposto ad assumere il rischio di impresa, ma certamente chiede garanzie assolute contro l’espropriazione dei profitti. I mercati finanziari sono disposti a fornirgli il denaro per investire, purché le condizioni della partecipazione azionaria o del contratto di credito siano ben definite, e la loro realizzazione garantita dalla legge e da un sistema efficiente di recupero dei crediti in caso di insolvenza.
I mercati più sofisticati – quelli per i finanziamenti a lungo termine, per la trasformazione dei rischi e per il loro trasferimento attraverso contratti assicurativi – sono anche quelli più importanti per la crescita. Essi, infatti, accrescono la liquidità dell’investimento a lungo termine e allo stesso tempo offrono all’investitore la possibilità di scegliere con precisione le caratteristiche di rischio del proprio portafoglio. Dove questi mercati sono spessi ed efficienti, è più facile investire nelle tecnologie più complesse e nelle innovazioni, è più facile allungare l’orizzonte degli investimenti.
Guardiamo all’Italia dei giorni nostri. Già sapevamo che le garanzie reali sui mutui vengono escusse con grande difficoltà, per la riluttanza delle preture; per questo motivo non è possibile ottenere un prestito ipotecario a Londra o Bruxelles, dove pure le condizioni sarebbero migliori, per l’acquisto di una casa in Italia. La proprietà immobiliare mostra uno dei rendimenti più bassi del mondo avanzato, a causa dei noti vincoli alla libera disponibilità e alla trasformazione degli immobili. Dello stato attuale delle procedure di insolvenza meglio non parlare per carità di patria. Nei giorni scorsi Pietro Ichino raccontava sul Corriere della Sera di una sentenza che ha ordinato la riassunzione di un cassiere che aveva portato a casa con sé parte delle disponibilità di cassa.
E ora l’opinione pubblica europea assiste sbigottita a questo caso straordinario dei tassi di usura. Di fronte al dilagare della piaga dell’usura, laddove si sarebbe dovuta intensificare l’azione repressiva di polizia, nel 1996 il parlamento approvò una legge; con discutibile tecnica legislativa, questa definiva i tassi di usura come una proporzione dei tassi correnti di mercato. La discesa dell’inflazione negli anni seguenti ha sospinto tutti i contratti a tasso fisso stipulati tra il 1996 e il 1998 al di sopra di quella soglia. Una sentenza della Corte di Cassazione (22 aprile 2000 n 5286, relativa peraltro ai soli interessi di mora) ha stabilito che “ai fini della qualificazione usuraria degli interessi momento rilevante è la dazione di questi, non la stipula del contratto”.
Dunque, d’un sol colpo frotte di rispettabili banchieri e finanzieri sono stati trasformati in usurai. Il giubilo popolare è massimo; le organizzazioni dei consumatori hanno chiesto il rimborso di migliaia di miliardi di interessi pagati su contratti di mutuo perfettamente legittimi al momento della stipula.
Di fronte a questo sconquasso, molte voci si sono levate a chiedere un intervento del governo e del parlamento che sanasse l’anomalia. Si penserebbe: attraverso una interpretazione autentica della legge precedente che ne escludesse ogni applicazione retroattiva, come del resto i principi generali dell’ordinamento prevedono in tutti i paesi civili. Niente affatto: le forze politiche stanno cercando un “punto di equilibrio” (sic!) tra le richieste dei consumatori e quelle dei banchieri.
Si discute se la restituzione di 2500 miliardi ai titolari dei mutui in questione sia sufficiente compensazione; una parte dell’opposizione preme per aumentare l’importo. Il governo si appresta a sciogliere il nodo gordiano in un consiglio dei ministri all’uopo convocato tra Natale e Capodanno, forse contando che mercati e opinione pubblica internazionali siano in quel momento distratti da altre, e più liete, faccende.
Ecco, dunque, perché l’Italia è un caso limite di cattiva qualità del diritto, perché non possiamo più crescere sopra il 2 percento, perché gli investitori esteri in Italia vengono con difficoltà, spesso solo quando i soldi glieli allunghiamo noi attraverso la mano pubblica. Perché questo è un paese nel quale, a causa di una legge sbilenca interpretata in maniera sbilenca, governo e parlamento, maggioranza e opposizione, discutono seriamente di quanto bisogna restituire ai debitori per mutui legalmente contratti cinque anni fa.
Stefano Micossi
Fonte: Il Sole 24 Ore del 27 dicembre 2001