La Lega ha perso il legame con il proprio territorio
Il rapporto che nel tempo la Lega Nord è riuscita a costruire con il suo territorio d’ elezione può essere paragonato storicamente, pur con tutte le differenze del caso, alla storica simbiosi che si era creata ai tempi della Prima Repubblica tra il Pci e l’ Emilia-Romagna dei ceti medi così come tra Dc e il Veneto interclassista. Eppure questo legame, prima antropologico e poi di rappresentanza politica e che per un lungo periodo era parso inossidabile, si è andato via via incrinando per gli effetti diretti e indiretti della Grande Crisi. Le piccole imprese, le partite Iva, le comunità locali hanno messo a dura prova il sindacalismo di territorio e ne hanno mostrato tutti i limiti. È vero che molti esponenti del Carroccio vengono dal mondo artigiano e dal lavoro autonomo ma non basta più. E pur avendo il Carroccio conquistato alle ultime amministrative due Regioni come Piemonte e Veneto non è riuscito a farne né due avamposti del federalismo realizzato né tantomeno due laboratori di un modello economico alternativo. Il primo nordismo si è rivelato, dunque, uno straordinario manuale di propaganda politica che quando si è misurato però con il governo della complessità ha mostrato tutti i suoi limiti di alfabeto. Fin quando si è trattato di amministrare piccoli centri o città di provincia (da Varese a Verona) la cassetta degli attrezzi leghista si è dimostrata tutto sommato sufficiente ma quando il livello dei problemi è salito il buio ha trionfato. E a niente serve ricordare, come ha fatto di recente la Padania, che prima della Lega già San Gaudenzio si era opposto ai poteri forti, ai Monti del suo tempo! Cominciamo dal Piemonte e dall’ esperienza del governatore Roberto Cota. Il primo tentativo di far sentire il peso del Carroccio il neoeletto (novarese) lo fece minacciando fuoco e fiamme contro la Borletti che voleva chiudere lo stabilimento di Omegna e delocalizzare. Risultato uguale zero perché l’ azienda ha impacchettato l’ impianto e se ne è andata. Anche con la Fiat Cota ha cercato di far sentire la sua voce in difesa degli stabilimenti piemontesi ma al di là di qualche photo opportunity con Sergio Marchionne non ha portato a casa granché. La sinistra da una parte poteva mettere in campo uomini capaci di dialogare con la Fiat (il sindaco Sergio Chiamparino e il suo successore Piero Fassino) e dall’ altra monopolizzava la protesta con la Fiom di Mirafiori. La Lega che avrebbe dovuto recitare da attore protagonista alla fine ha fatto tappezzeria. L’ ultima occasione in cui la Regione ha dimostrato di non riuscire a prendere palla è stato il presunto ingresso di misteriosi investitori cinesi nella De Tomaso. Annunciati più volte in città gli asiatici non si sono mai visti, i sindacati se la sono presa con Gian Mario Rossignolo e Cota è apparso ancora una volta defilato. Del resto anche i leghisti a microfoni spenti hanno sempre ammesso che il governatore lo si trova molto di più negli studi televisivi che nei luoghi deputati e la vox populi si sa è difficile da smentire. Anche a Varese, il Cremlino del Carroccio, le proposte leghiste latitano. Il modello manifatturiero classico che ha fatto le fortune del territorio mostra la corda e in città sia le università sia le organizzazioni di rappresentanza hanno avviato una riflessione autonoma sul futuro dei distretti locali. Aerospazio ed elettrodomestici in testa. La specializzazione del passato non è sufficiente a reggere l’ urto della concorrenza low cost e il tessuto delle piccole imprese, dal canto suo, avrebbe bisogno di mettersi in rete con maggiore velocità. Quanto al terziario e a Malpensa dire che siamo in presenza di un’ eterna incompiuta è poco. I leghisti varesotti imprecano contro il «partito romano» vicino all’ Alitalia, presentano maliziose interpellanze al ministro Corrado Passera ma la verità è che la Lega non riesce assolutamente a incidere sullo sviluppo dello scalo. Insomma Varese si interroga e cerca di cambiar pagina e il Carroccio non riesce ad uscire dalla retorica del piccolo mondo antico. Sostiene la protesta dei Contadini del tessile ma non ce la fa a portare le loro istanze (la legge sul made in) fino ad affermarsi a Bruxelles, nel frattempo non li spinge ad aggregarsi e non riesce nemmeno ad aiutarli quando in banca si trovano le porte sbarrate. La prima volta che i Piccoli del varesotto si sentirono orfani la Lega organizzò il famoso convegno di Vergiate con Bossi-Tremonti-Ponzellini, oggi un replay non è previsto. Anche nella competizione con il mondo ciellino lombardo la Lega non sembra spuntarla. Il vicepresidente della Regione Andrea Gibelli pesa poco e ha scelto di giocare le sue carte con «l’ assessorato itinerante». Gira le aziende, siamo a quota cinquanta ma intanto, dicono i suoi colleghi, Roberto Formigoni fa quello che vuole al Pirellone. Nei giorni scorsi per dare più enfasi al suo peregrinare Gibelli, dal paese di Telgate, ha dichiarato all’ inviato della Padania che non lo perde di vista nemmeno un giorno: «Sento che c’ è sempre più esigenza di lombardismo». In un ente Regione in cui gli indagati possono comporre per numero una squadra di calcio è sembrata una battuta amara, ma i sostenitori di Gibelli assicurano che non lo era. Quanto alle trasformazioni di Milano è tanto tempo ormai che il Carroccio ha staccato la spina. Le metropoli sono difficili da approcciare per il leghismo, con i professionisti non è iniziato mai un vero dialogo, i consulenti a partita Iva alle comunali hanno preferito Pisapia e così in città la Lega si accontenta di sedere su uno strapuntino. Passa il tempo con qualche tirata contro i kebabari e poco di più. Non c’ è seguace di Umberto Bossi che dopo la nomina a governatore del Veneto di Luca Zaia non fosse pronto a scommettere che l’ ex presidente della Provincia di Treviso, l’ uomo che per festeggiare l’ elezione aveva offerto toro alla griglia, avrebbe fatto il botto. C’ era addirittura qualche gelosia tra i varesotti di via Bellerio e i trevigiani perché quando a Pontida sfilavano sul palco i rappresentanti regionali il numero uno lombardo Giancarlo Giorgetti era costretto a dire, inghiottendo la saliva: «Anche noi un giorno ce la faremo». Oltre ai favori dei militanti verdi Zaia era riuscito in un battibaleno a portare dalla sua parte il baricentro della società veneta. I politologi la chiamano mobilità elettorale, i maligni preferiscono la nozione di opportunismo ma la velocità della trasmigrazione di industriali e uomini del business dal precedente blocco centrato su Giancarlo Galan a quello di Zaia è stata impressionante. Una diaspora in tempo reale. Oggi però non c’ è nessuna associazione territoriale della Confindustria che straveda per il governatore, come persona lo rispettano e il suo indice di gradimento nelle classifiche del Sole 24 Ore risulta sempre alto (come quello per il governo Monti) ma la cosa finisce lì. E l’ incontro con gli industriali veneti che a metà maggio a Treviso avrebbe dovuto far rinascere l’ amore è stato un mezzo flop. Se vogliamo l’ alfabeto economico di Zaia è rimasto fermo all’ esperienza da ministro dell’ Agricoltura. Allargamento delle zone di produzione del Prosecco, negozi a kilometro zero dove vendere i prodotti della terra ma in materia di politica industriale non s’ è vista un’ idea che una. Sulla Tav che dovrebbe collegare Milano e Venezia e che costa tanto il Carroccio ha sempre traccheggiato tranne che nominare come commissario un amico di Giulio Tremonti, Bartolo Mainardi. Sulla necessità di aggregare le piccole imprese, rafforzare la banda larga e magari creare una finanza di territorio emettendo obbligazioni di distretto Zaia non si è mai speso. Tantomeno per cercare un collegamento tra Milano e Nord Est che riducesse la troppa distanza culturale tra il territorio più dinamico e la capitale del Nord. Parole come innovazione e terziario non fanno parte del suo lessico. Sembrerà singolare ma quello che manca alla Lega, dal Piemonte al Veneto, da qualche tempo a questa parte è proprio una lettura delle trasformazioni del territorio che li ha visti trionfare, il Nord. Il primo nordismo si è fermato a Gemonio. Eppure basterebbe monitorare l’ analisi dei flussi di persone e merci lungo l’ asse della A4 per avere la dimostrazione non solo che il federalismo tende a frammentare l’ economia reale ma che oggi bisogna cambiar registro se si vuol essere credibili agli occhi dei Piccoli e delle partite Iva. Non basta qualche comizio contro la globalizzazione, occorre costruire progetti a rete, insegnar loro a battere i mercati esteri e a superare i campanilismi. Si racconta di una riunione in cui una delegazione di operatori cinesi si è trovata ad ascoltare quattro differenti speech di amministratori italiani del Nord che magnificavano, in concorrenza tra loro, le virtù del proprio territorio. Si tramanda che gli asiatici non capirono e gli imbarazzati interpreti si rifiutarono di spiegar loro l’ arcano.
Limiti e illusioni del Primo Nordismo fermo a Gemonio
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