di Fabrizio Onida
A meno di tre mesi dalla firma del TPP (Trans Pacific Partnership) e in attesa di ratifica da parte del Congresso USA, si moltiplicano gli sforzi della diplomazia economica europea e americana per cavalcare l’onda dell’integrazione commerciale e produttiva che vede ormai da anni un crescente protagonismo dei paesi asiatici negli scambi e negli investimenti mondiali. Asia e Cina sono sempre più vicine!
Come e più del negoziato in corso sul fronte occidentale (TTIP-Transatlantic Trade and Investment Partnership), gli impegni sottoscritti dagli USA e gli altri 11 paesi partner nel TPP – che in Asia includono il Giappone ma non (ancora) Cina e Corea – vanno molto oltre le tipiche materie commerciali (dazi e altre barriere doganali) per coprire servizi come telecom, e-commerce, proprietà intellettuale, appalti pubblici, concorrenza con imprese a capitale pubblico, diritti sindacali e del lavoro, ambiente, contenzioso imprese private-Stati nazionali. Obiettivi forti, non privi di ambiguità e controversie come gli standard sanitari e di sicurezza dei consumatori, lo strapotere del big business USA nell’offerta di servizi digitali, i diritti del lavoro, la compatibilità tra durata della protezione brevettuale farmaceutica e diffusione dei farmaci generici. Ma sembra evidente una crescente dimensione di governo sovra-nazionale dei diritti e delle regole di mercato. Il “Pacific Rim” è un potente stimolo competitivo anche per i governi e le imprese dei nostri paesi.
Questo attivismo negoziale sta alimentando un tremendo intrico di procedure per rispettare le “regole d’origine” dei prodotti e dei servizi in presenza delle fitte “catene globali del valore”. Sempre più ricorre il termine “Partnership”, che ha valenza politica più marcata dei tradizionali “Agreement” (centinaia di FTAs), “Association” (come l’ASEAN a 10), “Cooperation” (come l’antica APEC a 21, che include USA, Cina e Russia). I governi dell’ASEAN (620 milioni di popolazione dal ricco Singapore al povero Myanmar) hanno peraltro annunciato in questi giorni (NYT del 30.12) un piano per abbattere ulteriormente barriere commerciali e alla mobilità di lavoro e capitali entro il 2025. Uno slogan dell’ASEAN è “richness in diversity”: saggezza confuciana?
Tutto ciò mentre – come notato dal Financial Times e dal nostro viceministro Calenda (Sole 20.12) – la recente riunione ministeriale della WTO a Nairobi ha praticamente decretato il tramonto dell’ambizioso Doha Round, dopo 14 anni di tentativi e taluni molto parziali risultati.
La Cina, vero “hub” asiatico di quella parte del mondo, ha già accordi di libero scambio con 8 dei 12 firmatari del TPP e ne sta preparando uno col Giappone entro l’ambiziosa proposta della RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) che abbraccia tutta l’Asia con Australia e Nuova Zelanda.
Molti paesi europei, Italia in testa, sono allarmati dalla probabile caduta dei dazi antidumping quando il prossimo 16 settembre 2016 la Cina dovrebbe uscire dalla categoria delle “Non market economies” e quindi vedersi riconosciuti i livelli dei prezzi praticati sul proprio mercato interno. Certamente sarà assai più complessa di oggi la difesa europea dai prodotti siderurgici, ceramici o elettronici che la Cina esporta a prezzi artificiosamente bassi. Il sistema economico cinese, in cui il 35% del prodotto e il 45% dei profitti derivano da imprese a maggioranza di controllo statale (per di più con un sistema politico mono-partito), è difficilmente definibile come vera “economia di mercato”. Non va comunque dimenticato che dal 2001 la Cina è soggetta (come gli altri 163 paesi membri) alle regole della WTO, che includono possibili dazi anti-sussidio, barriere temporanee alle importazioni in presenza di violenta “market disruption” ai danni di qualche settore nazionale, tribunali sovranazionali per le controversie.
Ma soprattutto dobbiamo non giocare solo in difesa, bensì aiutare le nostre imprese a partecipare più attivamente al grande dinamismo di questi mercati tramite investimenti diretti e accordi di collaborazione tecnologica e commerciale.
A parità dei poteri d’acquisto, il continente asiatico pesa oggi il 35% del PIL mondiale (di cui 4,3% il Giappone), contro l’8,4% dell’America latina e poco più del 10% di Africa e M.Oriente. E secondo alcune proiezioni (McKinsey), nel 2035 l’insieme dei paesi oggi variamente definiti come emergenti peseranno circa due terzi del PIL mondiale, di cui Cina il 20% e India il 10%.
Negli anni 2000 il reddito pro capite mediano dei cinesi ha raggiunto quello medio mondiale (2200 dollari), facendo crescere consumi e importazioni. La Cina, oggi primo esportatore mondiale di beni, si avvia a diventare anche il primo importatore (già oggi con l’11%) superando gli USA.
Con le parole di Enrico Letta, presidente della neonata Associazione Italia-ASEAN (AREL-Mulino ottobre 2015), “le cose migliori l’Italia e i suoi imprenditori le hanno realizzate quando hanno rischiato e anticipato i cambiamenti in corso nel mondo. E’ questa la sfida di oggi quando guardiamo allo straordinario sviluppo in essere in quella parte del continente asiatico”.
fabrizio.onida@unibocconi.it
Fonte: Sole24Ore, lunedi 4 gennaio 2016