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L’export che sostiene l’Italia

L’unica ricetta è tornare a fare politica industriale.Difendere le aziende strategiche, indurre la concentrazione, aiutare l’export e rassegnarsi a tarare il mercato interno su consumi che giocoforza non potranno tornare come prima.
Può l’economia di un paese che haabituato i suoi abitanti a vivere alla grande, ben al di sopra delle realipossibilità, reggersi solo su un quarto di essa, lasciando gli altre tre quartial loro (infausto) destino? Evidentemente no. Eppure è quello che sta facendol’Italia, che “tiene” – si fa per dire, visto che alla fine del’anno larecessione si sarà mangiata oltre due punti di pil – grazie all’export, chevale complessivamente 370 miliardi, cioè appunto il 25% del pil.
Si tratta diun numero che cresce nonostante la crisi: nei primi cinque mesi di quest’annodel 3,9%, che è la somma algebrica tra il +9,3% del flusso verso i paesiextra-Ue (nonostante una contrazione di quasi il 12% verso la Cina, unica notastonata) e il -0,1% di quello verso l’Europa, che pure continua a valere circametà delle nostre esportazioni. E che ha consentito al nostro manifatturieroche esporta, e ai servizi ad esso collegati, di recuperare completamente ilivelli del 2007, pre-crisi mondiale. Anzi, il fatto che la componente extra-Uesi incrementi a due cifre o quasi, rende ancor più forte il nostro export,visto che il futuro, in termini di trend, non è certo nel ancora ricco mainguaiato Vecchio Continente.
Inoltre la propensione all’export, misurata come rapporto tra esportazioni dibeni e servizi e pil a prezzi costanti, èaumentata del 28,4%, il che significa una spinta non indifferente versol’innovazione, visto che sui mercati internazionali senza quella sei tagliatofuori (lo dimostra il caso della meccanica, che rappresenta il settoremerceologico primo nella classifica del nostro export).
Tuttavia, non basta. Intanto perchéquel fatturato estero fa capo a una moltitudine di imprese, oltre 200 mila, ma lametà dell’export italiano è fatto da meno di un migliaio di aziende chesuperano i 50 milioni. Per cui si tratta di piccole piccolissime realtà chemediamente esportano poche migliaia di euro. Nella competizione globale,possiamo costruire la nostra posizione di forza su una realtà cosìpolverizzata?
In secondo luogo, il restante 75% del nostro pil, composto dalmanifatturiero che non esporta – e dunque destinato a soccombere – e da unterziario di cui una consistente fetta è pubblica amministrazione, èsubordinato ad un quadro di consumi interni che per la prima volta daldopoguerra vedrà un arretramento superiore alla contrazione della ricchezzaprodotta. Come dimostra la forte contrazione delle importazioni, grazie allaquale dopo molti anni la bilancia commerciale sarà in equilibrio.
Ilfatto è che non possiamo reggere con un’economia così squilibrata, che tral’altro crea interessi confliggenti nel mondo imprenditoriale, tra chi vuoleche le poche risorse siano spese per spingere l’export che tira – e la nuovaIce, il tavolo di coordinamento voluto da Farnesina e Sviluppo economico, vannoin questa giusta direzione – e chi, invece, giocando solo in casa cerca sussididi tutti i tipi per salvarsi. E di “guerre dei poveri” di questo tipo certo nonsi sente il bisogno.
Allora? L’unica ricetta è tornare a fare politica industriale.Difendere le aziende strategiche (che errore sarebbe cedere i gioielli diFinmeccanica, a cominciare da Ansaldo Energia), indurre la concentrazione peraccrescere la dimensione media, aiutare l’export e rassegnarsi a tarare ilmercato interno su consumi che giocoforza non potranno tornare come prima.

Fonte: Messaggero del 22 luglio 2012

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