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L’Eurozona a due velocita’ tra struttura e congiuntura

Il filo comune dei commenti sullo stato di salute dell’ eurozona al ritorno dalle vacanze può essere riassunto in poche parole: la congiuntura migliora, ma la struttura peggiora. La congiuntura: dopo 6 trimestri di variazioni negative, nel secondo trimestre 2013 il tasso di crescita è risalito in territorio positivo (+0,3%) e gli indicatori di fiducia migliorano, mentre l’ inflazione è scesa all’ 1,3%. Ma la ripresa è concentrata in Germania e in Francia (e anche in Irlanda), mentre la periferia mediterranea continua ad annaspare, schiacciata da tassi di disoccupazione stratosferici (sopra il 25% in Grecia e in Spagna, sopra il 18 in Portogallo, sopra il 12 in Italia) che sono previsti continuare ad aumentare ancora per diverso tempo. segue a pagina 10 segue dalla prima Anche le condizioni finanziarie sono generalmente meno tese, come è riflesso nel ritorno sul mercato dei capitali di molte banche e, specularmente, nel calo del ricorso ai sostegni di liquidità della Bce. Tuttavia, la frammentazione dei mercati finanziari persiste, con spread ancora significativi nei tassi di finanziamento dei debitori sovrani (sui 250 punti base per Italia e Spagna, sopra 400 per il Portogallo e la Grecia) e dei prenditori di credito privato (dai 150 punti base dell’ Italia agli oltre 350 del Portogallo). Il miglioramento della congiuntura produce due conseguenze avverse sulla qualità della politica economica: diminuiscono la propensione della Bce ad allentare le condizioni monetarie, cosa che invece sarebbe altamente raccomandabile, tra l’ altro per fare scendere il cambio dell’ euro, assurdamente arroccato sopra 1,30 sul dollaro; diminuisce la pressione sui governi a correggere le rigidità strutturali che frenano le economie. Se appena allunghiamo un po’ lo sguardo, però, il quadro si fa cupo. La ripresa si annuncia molto lenta, in particolare nella periferia indebitata, così lenta che la disoccupazione non potrà ritornare sui livelli pre-crisi prima della fine del decennio. Il cambio elevato dell’ euro con le monete terze promette ulteriori perdite di quote di mercato nel commercio mondiale; il problema è aggravato, all’ interno dell’ eurozona, dalla crescita lenta della domanda interna e dal cambio reale fortemente deprezzato della Germania. Qui sta il cuore del problema. I divari competitivi a favore della Germania possono essere riassorbiti solo se i prezzi e i salari relativi del centro si alzano, rispetto alla periferia. Come sottolinea Adam Posen in un commento sul Financial Times del 4 settembre, il problema è che, dopo le celebrate riforme del mercato del lavoro dell’ inizio del decennio scorso, la Germania è anche diventata un paese a bassi salari (7,5 milioni di mini-jobs, pagati 5 euro l’ ora), nel quale l’ imperativo nazionale è esportare, mentre la domanda interna e i redditi languono. Dunque, l’ onere dell’ aggiustamento tende a ricadere sui paesi periferici, che devono accettare ulteriore deflazione. Con una crescita potenziale della Germania attestata intorno all’ 1,2-1,3 per cento, quella dei paesi periferici dell’ eurozona difficilmente potrà superare l’ 1 per cento. Nei fatti, risultati soddisfacenti sul fronte della competitività si sono registrati solo in Irlanda – dove la buona produttività lascia margini maggiori per diminuire i costi – mentre qualcosa, ma ancora insufficiente, è stato fatto in Spagna e Portogallo, nulla in Italia. La Grecia ha tagliato i salari brutalmente, senza effetti sulle esportazioni (è migliorato il turismo). Poi, c’ è la questione della sostenibilità dei debiti sovrani. Solo per ricordare: alla fine del 2007 i debiti pubblici erano sotto il 110 per cento in Italia e in Grecia, il 70 per cento in Portogallo, il 40 per cento in Spagna, il 25 per cento in Irlanda. Oggi, secondo il Fondo monetario, quei numeri sono rispettivamente 131, 179 (nonostante due salvataggi e la ristrutturazione di oltre 200 miliardi di debiti verso privati), 122, 92 e 122. Con l’ esclusione dell’ Italia, tutti questi paesi hanno ancora disavanzi pubblici superiori al 6 per cento del pil. Il Fondo monetario stima che la Grecia avrà bisogno di nuovi finanziamenti per circa 11 miliardi per quest’ anno e l’ anno prossimo. Per nessuno dei paesi elencati le proiezioni della Commissione appaiono credibili; dunque, in ottobre partirà presumibilmente una nuova ondata di richieste di austerità. Nel medio termine, i piani di rientro concordati con i paesi più indebitati, o comunque impliciti nelle nuove regole del patto di stabilità, implicano per tutti questi paesi avanzi primari tra il 3 e il 5 per cento del pil a tempo indeterminato. La possibilità che nuovi shock finanziari li spingano fuori dai binari è molto elevata. Se qualcuno pensa che questa sia una configurazione economica sostenibile, prego, alzi la mano. Chi pensa che l’ euro sia un bene comune importante e da salvare – come lo penso io – deve dire ad alta voce che su questa strada andiamo a sbattere contro al muro. Il Consiglio europeo del giugno del 2012 aveva elaborato con molto merito di Mario Monti ed Enzo Moavero, non dobbiamo dimenticarlo – una strategia complessiva centrata sulla road map per una “genuina” unione economica e monetaria e ambiziose politiche per rilanciare la crescita (il growth compact). Quel cammino si è interrotto: il convoglio dell’ unione bancaria sembra finito nella sabbia, perché non vi è consenso sulla predisposizione di un fiscal back stop comune per i sistemi bancari in caso di crisi sistemica; l’ unione fiscale è stata accantonata, perché di condividere il rischio dei debiti sovrani nel centro virtuoso non si vuol sentire parlare; le misure per la crescita, incluse le promesse di aprire i mercati dell’ energia e degli altri servizi a rete e i project bond, “non sono una priorità”, come ha dichiarato qualche tempo fa il cancelliere tedesco. Ecco dove si giocherà la partita della presidenza italiana: non, temo, su nuove proposte di riforma istituzionale, che pure sarebbero necessarie, ma sulla capacità di ripartire da dove il Consiglio europeo del giugno 2012 era arrivato, mentre poi è arretrato di nuovo in un quadro di crescente sfiducia reciproca. Se si può fare, non so dire: è certo che dobbiamo tentare, perché la posta è altissima. E’ anche certo che se non ci presenteremo con l’ economia e i conti pubblici un po’ più in ordine, non saremo credibili e non ci ascolteranno.

Fonte: Affari e Finanza del 9 settembre 2013

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