Probabilmente non ha molto senso che i tassi d’interesse spagnoli ieri fossero più alti di quelli del Kazakhstan, ma come diceva John Maynard Keynes «i mercati possono essere irrazionali per un tempo molto più lungo di quanto tu e io possiamo rimanere solvibili». Le misure di salvataggio previste per Grecia e Irlanda rappresentano una cornice di risanamento di medio termine per i debiti di quei paesi. Sono pacchetti che contengono impegni di ambizioso risanamento fiscale, correzioni profonde dei sistemi bancari, riforme strutturali e prestiti di lunga durata che nel caso irlandese sono addirittura settennali (quelli greci sono stati anch’essi allungati).
Sembravano quindi risolti i problemi di liquidità di Atene e Dublino per i prossimi anni, necessari a guadagnare il tempo necessario a vedere gli effetti delle misure di austerità e di riforma previste dai due governi e a predisporre un meccanismo ordinato di gestione dei debiti pubblici di tutti i paesi critici dell’area dell’euro.
I governi europei, infatti, domenica hanno anche approvato un meccanismo di risoluzione delle crisi debitorie (il Meccanismo di stabilità europea) che segue le procedure previste da alcuni anni dall’Fmi nei suoi interventi. Non si fa cenno a possibilità ex-ante di un default del debito, ma se ne prevede l’eventualità in una seconda fase, attraverso l’attivazione di alcuni sistemi d’allarme, in modo da rendere anche più credibili gli impegni di risanamento dei paesi deboli. L’Fmi segue questi criteri in modo riservato, mentre le istituzioni europee hanno ritenuto di renderle esplicite e trasparenti. Tenere nascosto il meccanismo non era possibile dopo la proposta Merkel-Sarkozy sul coinvolgimento degli investitori privati nella ristrutturazione dei debiti. Ma il solo fatto di dichiarare l’eventualità di una ristrutturazione dei debiti dal 2013 ha di nuovo allarmato i mercati, che temono che se il debito dopo il 2013 si rivelerà insostenibile, anche i titoli emessi prima di allora saranno colpiti.
Il Portogallo è un esempio di paese con debiti esterni cronici, che è improbabile risanare in tre anni. La reazione è stata così violenta da aggravare il contagio della penisola iberica, scuotere le aste dei titoli italiani e spingere il governo di Parigi a dichiarare che la Francia non è in pericolo.
In tale clima i tre anni per arrivare al 2013 sono un periodo di tempo non breve, durante il quale instabilità politica e fragilità dei sistemi bancari possono produrre incidenti di percorso. Il 2013 d’altronde non rappresenta un vero punto di svolta: i livelli massimi d’indebitamento verranno raggiunti nel 2015 – da qui l’allungamento dei prestiti a Grecia e Irlanda – e dopo di allora si farà sentire l’impatto demografico sui sistemi pensionistici e sanitari.
Il problema dei debiti europei (benché minori di quelli di Usa o Giappone) e dei ruoli futuri dei governi – dovranno impiegare meno risorse e coinvolgere/controllare i privati in funzioni pubbliche – sta entrando come un elefante nella nostra vita pubblica e non se ne andrà più. Si tratta di ripensare la politica per i decenni a venire. Soprattutto in Italia bisognerebbe centrare l’agenda politica su questa prospettiva e agire in anticipo.
La crisi sta infatti manifestando tutta la sua natura di crisi della politica. Nessun risanamento sarà possibile per esempio se l’impegno europeo a difesa dell’euro non sarà tanto credibile da ridurre la febbre dei tassi d’interesse. Perché avvenga è necessario disporre di un meccanismo che renda più conveniente e credibile la convergenza tra i paesi.
Nei mesi scorsi la proposta di Bruegel, un think tank di Bruxelles, di utilizzare eurobond emessi da un’agenzia comune europea fino a una quota dei debiti pubblici nazionali pari al 60% del Pil, andava nella giusta direzione. Oltre quella quota i bond avrebbero continuato ad avere rendimenti differenziati tra paesi, disciplinando i meno virtuosi e incentivandoli a ridurre il debito. Il meccanismo, inoltre, offriva un modo ordinato con cui ristrutturare i debiti eccessivi garantendo la permanenza nell’euro del paese debole. In assenza di un meccanismo di ristrutturazione dei debiti dei paesi indisciplinati, si trattava di una proposta troppo radicale. Ma oggi sarebbe possibile adottare una versione “dinamica” della proposta, con quote di emissioni graduali pari al 10% all’anno per alcuni anni. Sarebbe il segnale politico che tutti aspettano dai paesi partner dell’euro.
Il salvataggio dei paesi della periferia è alla portata dell’economia europea, il debito pubblico spagnolo in fondo è pari al 5,3% del Pil della zona euro. Ma a livello nazionale la coerenza dei governi è cruciale. È poco di moda mettere in dubbio l’etica degli speculatori e sostenere che il loro comportamento non è affatto moralmente neutrale come è convenzione dire. Aiuterebbe guardare l’attacco all’euro dall’altra parte del mercato: a limitare il quotidiano attacco speculativo è disponibile soltanto l’arma degli acquisti di titoli da parte della Bce.
Il comportamento della Bce non è più neutrale, corrisponde a un impegno per la difesa dell’euro che deriva dalle decisioni degli stati e dai bisogni dei loro cittadini ed è realizzabile con mezzi tratti dai contribuenti europei. Proprio perché la difesa dell’euro da parte delle istituzioni è una questione politica e morale, i governi stessi – che senza il mercato dei creditori non avrebbero le risorse per sopravvivere – devono comportarsi moralmente e risanare strutturalmente i propri conti. Per l’Italia, il cui debito equivale al 20% del Pil dell’euroarea e i cui titoli pubblici, nonostante il rigore, sono stati lambiti ieri dal contagio, è tempo di capire fino in fondo la lezione della crisi.
L’Europa per superare la tempesta deve ritornare alla politica e puntare sulle regole
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