Fu la guerra di indipendenza che diede motivo a James Hamilton di unificare i debiti degli Stati americani all’inizio dell’Ottocento. Chi viaggia attraverso la Virginia e il Maryland incrocia i campi di quelle battaglie la cui tragica lezione è rimasta fondamentale per l’identità americana. I governi europei combattono invece la loro guerra di “interdipendenza” senza ancora trarne le conseguenze, come ostaggi consenzienti di stereotipi nazionali aggressivi.
Ieri finalmente il presidente francese François Hollande ha riportato l’unione politica nell’agenda dell’area euro dei prossimi due anni. Un governo economico entro il 2015, con un proprio bilancio, la capacità di emettere debito comune, una fiscalità armonizzata e un presidente permanente. Non bisogna troppo illudersi: c’erano segnali di arretramento del progetto di integrazione europeo, con Berlino tentata di attendere Londra (dopo il referendum del 2017) e desiderosa di rinviare perfino l’unione bancaria al 2018. Hollande, debole in casa, ha voluto inserirsi nel dibattito interno tedesco che vede l’opposizione Spd-Verdi di nuovo in risalita e antagonista alla cancelliera sull’integrazione europea. La politica francese è spaccata attorno alla Merkel (in modo speculare a quella italiana) ma il piano di Hollande ricorda le ambizioni poi riposte da Sarkozy nel 2009-10. Da allora l’unione di bilancio (e dei debiti) viene rinviata a quando tutti i Paesi saranno virtuosi e Parigi ha ottenuto un rinvio del pareggio di bilancio proprio di due anni. Ma abbandonare ogni ambizione avrebbe significato perdere senza combattere: è quasi impossibile infatti risolvere la crisi europea senza integrazione politica.
La definizione di “guerra di interdipendenza” è certamente abusiva, il comune destino non deve essere un alibi. Le ferite sono visibili: sono i posti di lavoro perduti, gli impianti abbandonati, i progetti cancellati delle giovani generazioni, una disperazione che non trova conforto nelle parole di chi governa. Ma la guerra deve essere vinta anche all’interno dei singoli Paesi o non avremo mai pace. C’è una precisa corrispondenza tra la profondità della crisi e la “capacità di governo” dei singoli Paesi. Sono i Paesi politicamente meno stabili, con istituzioni meno credibili, con livelli di istruzione e di legalità più bassi, che faticano a dare risposte efficaci alla crisi. Tuttavia anche se riuscissimo a risolvere, in Italia e altrove, questi radicati problemi, anche se riuscissimo a realizzare le riforme strutturali per intero, l’avvitamento dell’economia è ormai troppo avanzato per non ostacolare le stesse riforme. Un atto di fiducia nell’Europa è indispensabile.
Ci sono molte critiche da fare all’esempio giapponese, cioè all’aumento sconsiderato della liquidità fornita all’economia. Le conseguenze sugli altri Paesi di un deprezzamento dello yen sono gravi e l’artificialità dello stimolo non si riflette ancora in un aumento degli investimenti.
Eppure dopo decenni di stagnazione l’economia giapponese cresce del 3,5%. Spiega un analista industriale del Mit che attorno a Boston, così come in Oregon o in California, i laboratori di ricerca americani stanno “martellando come pazzi” per produrre nuove idee. Si finanziano a tassi nulli e investono nel futuro. Le dimensioni del mercato Usa fanno da lente di ingrandimento per ogni idea. In Europa ci dividiamo lungo confini che non esistono più: solo il 37% del capitale delle 30 maggiori imprese tedesche è in mano a tedeschi. Chi allora stiamo combattendo in questa assurda guerra economica, se non noi stessi?
Alla fondamentale agenda delle riforme strutturali è necessario affiancare un’azione politica coraggiosa. La priorità è quella di riattivare il credito. L’ultimo rapporto della Bce sull’attività bancaria mostra che l’accesso delle piccole e medie imprese alla finanza resta precluso nei Paesi in difficoltà, mentre i prestiti da un Paese all’altro stanno addirittura diminuendo. Di fatto il mercato finanziario si sta ancora frammentando e impedirà che le riforme strutturali dei Paesi deboli siano premiate dall’afflusso di investimenti da parte dei Paesi con surplus di risparmio. Di questo passo non solo l’austerità, ma anche le riforme strutturali si riveleranno una trappola senza uscita.
Ci sono evidentemente dei limiti all’azione della Bce e alle soluzioni di carattere puramente finanziario. Riportare l’unione politica europea nell’agenda è essenziale infatti per risolvere un altro paradosso della crisi: se consideriamo l’intero ammontare delle iniziative finanziarie con cui i Paesi dell’area euro hanno condiviso le conseguenze della crisi, arriviamo alla cifra stratosferica di 1.200 miliardi di euro. Il 70% è rappresentato dai rischi assunti dalla Banca centrale europea per finanziare gli squilibri, prima privati e poi pubblici, nel risparmio dei 17 Paesi. In gran parte si tratta di prestiti, ma la retorica che usiamo è ormai tanto acrimoniosa che li chiamiamo salvataggi. Solo una minoranza degli aiuti è frutto di approvazione politica e parlamentare da parte dei 17 Paesi. Abbiamo così paura della politica da nascondere la verità ai nostri cittadini, cioè a noi stessi.
L’Europa ostaggio degli Stati
Commenti disabilitati.