• domenica , 22 Dicembre 2024

“L’Europa non è una religione e l’Italia deve starci fintantochè le conviene”

L’emergenza immigrazione sulle sponde italiane ha mostrato la predominanza degli egoismi nazionali nel ‘club’ europeo e la tendenza a far prevalere gli interessi nazionali (i quali nei regimi democratici possono anche coincidere con le esigenze elettorali dei governi stessi), soprattutto in tempi economici incerti. Il prof. Paolo Savona, ex-ministro dell’industria del governo Ciampi e oggi presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, non vuole entrare nella mischia euroscettica con l’emotività di questi giorni, provocata dal niet delle altre cancellerie europee a una gestione congiunta dell’immigrazione. E’ necessario, secondo lui, assumere un approccio razionale quando si parla di Europa. “Ritengo che la scelta europea sia ovviamente favorevole nel lungo periodo all’Italia a patto che sia orientata verso un’unione politica, come lo era alla firma del trattato di Maastricht”.
Per l’allievo di Guido Carli, il punto centrale rispetto alla nostra adesione all’Unione Europea, più che sulla mancanza o meno di solidarietà politica dei “vicini” europei, risiede altrove: “L’Europa della moneta unica non era, e non è, una optimal currency area, una area monetaria ottimale, volendo prendere in prestito la definizione del premio nobel per l’economia, Robert Mundell. Con Maastricht si disse in pratica che avremmo ceduto la sovranità monetaria in vista di una unità politica. Si affermò l’idea che per portare l’Europa verso la creazione di un’area monetaria ottimale avremmo dovuto creare tre condizioni: perfetta mobilità del lavoro nella zona euro, e per questo fu firmato Schengen; perfetta mobilità dei capitali, cosa che non esiste visto che alcuni restano alla ricerca del proprio interesse nazionale, vedi la Francia che difende i campioni nazionali; e dulcis in fundo si disse che avremmo dovuto creare una common fiscal policy, politiche pubbliche comuni. Nessuna di queste tre condizioni è stata verificata a distanza di quasi vent’anni da Maastricht”.
Prof. Savona pare proprio che lo spirito di Maastricht sia svanito nel nulla. Cos’è successo?
E’ accaduto l’inevitabile quando è divenuto chiaro che gli Stati dell’Unione Europea non avrebbero ceduto prerogative politiche. Non essendosi realizzata mobilità del lavoro, circolazione libera dei capitali e non avendo preso quota una politica fiscale comune – ma solo simulazioni espresse sotto forma di vincoli, con la “governance delle regole”, presuntamente sostitutiva dell’unità politica – sono tornati in auge gli interessi nazionali. L’Unione Europea è scivolata sempre più verso una “governance delle regole” la quale, di per sé, è ricattatoria. Guardiamo a quello che è accaduto con Grecia, Irlanda e Portogallo: se un paese membro UE si trava in difficoltà e vuole che lo si aiuti, deve accettare i vincoli che gli vengono imposti, che peraltro peggiorano la loro situazione. In cambio sono salvi. Non è un fair game, non è un gioco equo questo.
Che cosa può fare l’Italia in quest’Europa?
La classe dirigente del nostro paese dovrebbe porre seriamente il problema del completamento della Unione Europea verso un’integrazione più politica. Ma sia chiaro: non è detto che tale richiesta sia accettata e seppur lo fosse, non è detto che finisca per essere favorevole all’Italia. Ricordo che è dovere della nostra classe dirigente essere disposta a difendere gli interessi nazionali italiani soprattutto qualora emergesse uno scenario di maggiore integrazione politica europea svantaggiosa per l’Italia. Difendere il nostro interesse potrebbe voler dire anche rimettere in discussione tutto e ove necessario, anche la stessa adesione all’UE dell’Italia. Sia chiaro: ove necessario e ove vi sia gran danno per gli interessi dell’Italia.
Uscire dall’Ue. Uno scenario difficile da immaginare. Come avverrebbe?
Qualora decidessimo di uscire – extrema ratio lo ripeto – dovremmo innanzitutto trovare alleanze internazionali per non finire in balia dei venti e della speculazione che ci aggredirebbe violentemente. Riacquisiremmo immediatamente, comunque, quel potere che ha ancora un membro dell’Unione Europea che si dà tante arie e ci dà tante lezioni, il Regno Unito, ovvero la libertà di sceglierci il tasso di interesse e la prerogativa sovrana di stabilire il rapporto di cambio che vogliamo. Non saremmo il brutto anatroccolo che fa le bizze, bensì uno Stato nazione che difende i propri interessi.
Ma i gruppi dirigenti italiani non sembrano disponibili a seguire una strada del genere?
I gruppi dirigenti hanno paura. Ma la questione non deve essere posta sul tema dell’immigrazione. Si deve porre su basi razionali. Questo sistema europeo, così come tirato su, prima o dopo sarebbe entrato in crisi. E’ la storia che ce lo insegna. Insomma l’Europa non è una religione. E tutti coloro che trasformano la nostra adesione all’Unione Europea in un credo, non dovrebbero avere il diritto di praticarla, facendo passare tutti quelli che non aderiscono come eretici. L’UE è un contratto tra paesi sovrani, retto dal principio commutativo di tutti i contratti, ovvero che tutte le parti devono avere interesse a farne parte. E se l’interesse decade, i gruppi dirigenti nazionali hanno il diritto/dovere di tutelare il paese fintanto che il paese è uno Stato Nazione con una sua sovranità, pur con i vincoli a cui ha liberamente accettato di vincolarsi i quali però non sono irreversibili.
Prof. Savona, ipotizziamo si ritorni alla lira? Cosa accadrebbe?
Sono stati effettuati studi in questo senso. Avverrebbe una svalutazione della nuova lira: da 1,44 scenderebbe a 0,80, e il nuovo marco salirebbe a 1,80. Vorrei vedere allora se le esportazioni tedesche, con una differenza del genere tra 1,80 e 0,80, continuerebbero a galoppare come fanno oggi? Si tratta di un ragionamento tecnico, non politico. O riusciamo ad avere delle istituzioni che siano coerenti e che portino avanti il nostro paese – o almeno che non lo spingano indietro – oppure siamo costretti a difendere gli interessi nazionali. Certo il paese passerebbe un brutto momento, ma almeno sarebbe responsabile delle sue sorti e non subirebbe il risultato di decisioni prese da altri.
Però c’è stato un tempo nel quale l’adesione dell’Italia all’euro zona è stata anche vantaggiosa?
Fino a quando il mercato ha creduto nella stabilità dell’euro, i vantaggi dell’adesione dell’Italia all’euro sono stati essenzialmente due: accesso al credito con un tasso di interesse di pochi centesimi inferiore a quello della Germania – la grande operazione da questo punto di vista- e l’obbligo fatto passare agli imprenditori italiani quanto agli aggiustamenti nelle loro imprese. Siamo riusciti a far passare il principio per il quale le imprese non avrebbero più potuto contare sul cambio della valuta bensì avrebbero dovuto ristrutturare, innovare e imprimere maggiore impegno in tema di competitività. Questo dividendo lo abbiamo portato a casa. Adesso che dividendo portiamo a casa? Il tasso d’interesse è oramai stabilito in funzione delle condizioni generali dell’economia, condizionate in preponderanza dallo stato dell’economia tedesca; il rapporto di cambio si sta rivalutando e danneggia le nostre esportazioni.
Ipotizziamo che l’Italia lanci un’iniziativa per sfuggire a questa situazione di “schiacciamento”. Che cosa possiamo fare a livello europeo?
Quando ero ministro dell’industria nel governo Ciampi lanciai un’iniziativa che ponesse le condizioni per un bilanciamento del potere industriale – economico tedesco in concerto con la Francia. Ne rimane memoria nei documenti di Palazzo Chigi. Chiesi al governo di allora, il governo Ciampi, di lanciare una grande iniziativa di alleanza industriale con la Francia, fatta di scambi azionari tra le industrie dei due paesi e che fosse capace di creare dei settori industriali tra i due paesi. Incontrai le resistenze di quello che all’epoca era il presidente dell’IRI, Romano Prodi. Ma, è bene ricordarlo, ancor prima ancora di lanciare la proposta per una partnership strategica con la Francia, tentammo direttamente con la Germania. Quando il presidente del consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, andò in visita in Germania per incontrare Helmut Kohl, feci questa proposta prima al mio omologo tedesco. La risposta fu che la Germania non era disponibile a una soluzione di partnership industriale così integrata con l’Italia. Questo vent’anni fa. Adesso con la Francia siamo in conflitto. E la Germania sembra ancora più distante da noi.
Gli altri Stati europei, comunque, non starebbero a guardare supinamente una nostra uscita dall’Europa, non crede?
Se agissimo in questa direzione, e lo facessimo come dovrebbe esser fatto ovvero correttamente, sarebbe invece l’Europa a riprendere i contatti con l’Italia. Invece di lasciarti andare – se si dovesse verificare lo scenario che abbiamo buttato giù prima sul rapporto di campo tra lira e marco – tenterebbero di riannodare con noi.
E se invece guardassimo fuori dall’Europa?
Se uscissimo dall’Europa, dovremmo orientarci verso alleanze dove c’è la crescita, i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) per intenderci. A questo punto però non sarebbe più un problema tecnico economico. Si tratterebbe di un problema di politica estera. L’obiettivo sarebbe quello di trovare degli alleati che ci consentano di minimizzare l’impatto economico che l’Italia dovrebbe sostenere qualora si decidesse di intraprendere la tragica decisione di abbandonare l’Europa. Il tentativo dovrebbe essere quello di rientrare nel drappello dei paesi che crescono. D’altronde in Italia sembriamo tutti d’accordo – destra e sinistra- che per abbattere il debito serve crescere e viceversa. Per abbattere il debito dovremmo dismettere il patrimonio pubblico, stimato in 400 mld. di euro, il 20% del Pil italiano.
Appunto: dismissione del patrimonio pubblico. Secondo lei perché l’idea della dismissione non ha mai preso quota?
Troppi interessi politici circondano il patrimonio pubblico. I partiti e i gruppi di potere concentrano sul controllo del patrimonio pubblico gran parte del loro potere residuo. Ma lo voglio dire chiaramente: se noi abbattessimo il debito, non servirebbe, neanche lontanamente, prendere in considerazione le condizioni di adesione all’Europa. In ultima istanza, la corda al collo – espressione del mio maestro Guido Carli – non ce l’ha messa l’UE, ma ce la siamo messi da soli.

Fonte: Occidentale del 30 ottobre 2011

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