• domenica , 22 Dicembre 2024

L’Europa illusoria e la sindrome di Stoccolma

di Carlo Clericetti

La nuova situazione geopolitica, che ha mutato profondamente il processo di globalizzazione, mostra gli enormi limiti di un’Unione nata un trentennio fa su presupposti molto diversi. Ma le classi dirigenti europee non sembrano rendersene conto e continuano a proporre strumenti come il Mes e regole che non cambiano la logica del passato

Il governo, la Banca d’Italia, la Commissione europea, l’Ocse, il Fondo monetario: tutti, all’inizio dell’anno, stimavano una crescita del Pil italiano nel 2023 dello 0,6%. E tutti, oggi, correggono la stima intorno all’1,2. Certo c’è da essere contenti che l’Italia stia crescendo il doppio delle previsioni e sopra la media dell’eurozona, anche se (come nota per esempio Attilio Pasetto su Eguaglianza & Libertà http://www.eguaglianzaeliberta.it/web/content/la-crescita-fragile-dell%E2%80%99economia ) fattori importanti come la produzione industriale (ad aprile -7,2% su base annua) e l’export (-5,4% sempre ad aprile sull’anno) stanno andando male e l’aumento è dovuto quasi solo a consumi e turismo.

“Chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza”, poetava Lorenzo il Magnifico. Aveva proprio ragione: non si può fare a meno di notare che le stime di tutti quegli autorevolissimi organismi hanno fatto un errore del 100% sull’arco di pochi mesi, per giunta in un periodo in cui, sul piano economico, non ci sono state scosse particolari. E chi poteva prevedere – si potrebbe obiettare – che gli italiani si sarebbero messi a spendere e che in tanti paesi del mondo si sarebbe sentito il desiderio di visitare l’Italia? Nessuno, certo. Come era imprevedibile la pandemia, quantomeno nelle dimensioni che ha assunto, o la vicenda dell’Ucraina, due eventi che hanno fatto mutare bruscamente e profondamente il quadro economico. La realtà è piena di fatti imprevedibili.

Il problema sta nel fatto che i tecnocrati europei, e vari uomini politici dei paesi ossessionati dai saldi di bilancio, pretendono invece di prevederli, e ritengono che su stime del genere debbano essere basate le regole europee. Il Mes ha l’ultima parola sulla sostenibilità del debito pubblico dello sventurato paese che dovesse farvi ricorso, e anche le nuove regole europee prevedono un’analisi della sostenibilità del debito come base per definire un percorso di rientro con il paese interessato. Stime dell’andamento di questa variabile che non sono a pochi mesi, ma addirittura a dieci anni. Quale credibilità possono avere?

Ma qui scatta un riflesso condizionato di quasi tutti gli economisti, anche quelli molto critici nei confronti della concezione europea della politica economica. Certo, dicono, si tratta di stime che in quanto tali possono anche sbagliare, ma “un criterio bisogna pur averlo”. Davvero? Ma se il criterio è incerto, e ha più e più volte dimostrato in passato di sbagliare grossolanamente, continuare ad applicarlo non equivale a decidere in un modo addirittura più aleatorio che se si lanciasse in aria una moneta, caso in cui le probabilità di successo sono teoricamente del 50%, cioè molto più di quanto abbiano azzeccato queste stime finora? Un’analisi della sostenibilità del debito prodotta il 25 luglio 2012 (il giorno prima del whatever it takes di Mario Draghi) avrebbe dato gli stessi risultati di una prodotta il 27? E in questo caso non si sarebbe trattato di considerare la possibilità di un evento casuale: quella è stata una decisione politica della Banca centrale, il cui atteggiamento è un fattore determinante per la sostenibilità dei debiti pubblici.

Una delle “novità” della riforma del Mes è che l’analisi di sostenibilità si effettua anche su chi non vi ha fatto ricorso, per essere pronti – si dice – in caso di richiesta urgente dell’intervento (vedi per esempio quanto ha scritto Andrea Guazzarotti https://www.rivistaaic.it/it/rivista/ultimi-contributi-pubblicati/andrea-guazzarotti/la-riforma-delle-regole-fiscali-in-europa-nessun-hamiltonian-moment ). Immaginiamo che questa norma fosse precedente al whatever: con un debito/Pil (2012) al 127%, in aumento del 6,83% rispetto all’anno precedente, lo spread a 535 punti, un costo del debito al 5,18% (ma il decennale si collocava al 6,50), una crescita negativa del 2,2% e una posizione netta sull’estero anch’essa all’epoca negativa, quale avrebbe potuto essere il risultato? Un risultato che – si dice – resterebbe per solo uso interno, ma si sa che un “segreto” conosciuto da più di una persona (e in quel caso le persone sarebbero parecchie) non è più tale. Di certo i mercati ne verrebbero a conoscenza, e le conseguenze potrebbero essere devastanti, con un classico caso di “profezia che si auto-avvera”.

Dunque non bisogna fare queste valutazioni? Sicuramente non deve farle il Mes, che per statuto deve prima di tutto tutelare i creditori, il che può portare a giudizi distorti. In generale, questi esercizi econometrici possono anche essere utili, ma non possono essere la base per imporre scelte di politica economica, specie se drastiche. La stima econometrica può cambiare in base agli ultimi dati statistici, ma questo serve a poco se quella precedente ha fatto prendere decisioni di politica economica che hanno prodotto i loro effetti. L’ex capo economista del Fondo monetario Olivier Blanchard ha ammesso qualche anno dopo che nel caso della Grecia i moltiplicatori assunti per decidere la “cura” erano sbagliati, ma questo non ha certo messo riparo all’aumento della mortalità infantile e di quella generale che erano seguite alle misure imposte al paese. E poi: con una cifra inferiore a quella impiegata per il “salvataggio” (in realtà il salvataggio delle banche tedesche, francesi e olandesi) si sarebbe potuto azzerare l’intero debito pubblico che la Grecia aveva all’inizio della crisi; invece l’anno scorso il suo rapporto con il Pil era ancora superiore al 170%.

La maggior parte dei politici europei fa pensare a una famosa frase di Keynes: “Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro”. (dalla Teoria generale). Ma questo giudizio purtroppo vale anche per gli economisti che li consigliano e che elaborano i complicati meccanismi in base ai quali funzionano le cosiddette “regole”. Quelle che sono state in vigore fino alla sospensione decisa allo scoppio della pandemia erano del tutto sbagliate, come ha ammesso anche la Commissione nella presentazione della sua proposta di quelle nuove. Anche perché – si dice nel documento – basate su parametri non osservabili, come l’output gap (la differenza tra il Pil effettivo e quello potenziale). Quindi le nuove regole si dovrebbero basare si dati meno dubbi, come la spesa pubblica netta. Bene, se non fosse che, come ha verificato chi si è dato la pena di leggere gli allegati tecnici, dove si entra nei dettagli del sistema di calcolo, quello che è stato cacciato dalla porta rientra dalla finestra, cioè questo sistema di calcolo richiede ancora una volta stime basate su parametri non osservabili (Giovanni Carnazza su lavoce.info, “Patto di stabilità: cambiare tutto affinché nulla cambi” https://lavoce.info/archives/101357/patto-di-stabilita-cambiare-tutto-affinche-nulla-cambi/ ). Oltretutto il percorso di rientro dal debito che paesi come l’Italia sono tenuti a fare verrà disegnato in base all’analisi di sostenibilità condotta dalla Commissione, della cui plausibilità abbiamo già detto. Per di più, per i politici “austeritari” (liberali tedeschi in testa) questo non è ancora abbastanza, e hanno insistito perché fosse aggiunta un’altra regola che impone un immediato taglio dello 0,5% al deficit qualora si superi il fatidico 3%.

Dal punto di vista delle regole, dunque, questa Europa è senza speranza. Quelle proposte dalla Commissione potranno forse ancora cambiare marginalmente (probabilmente in peggio), ma la logica è sempre la stessa, e i meccanismi sono altrettanto funesti di quelli che si è dichiarato di voler cambiare. Sono meccanismi e una logica economica pensati 30 anni fa, in un mondo radicalmente diverso da quello di oggi. Nel 1992, anno della firma del Trattato di Maastricht, usciva il famoso libro di Francis Fukuyama “La fine della storia”. Vi si esplicitava una tesi che corrispondeva a un sentire generalizzato: con il crollo dell’Unione Sovietica non c’erano più modelli alternativi al capitalismo, e quindi più nessun ostacolo alla marcia trionfale della globalizzazione sotto l’egemonia americana. Fukuyama, in realtà, parlava della diffusione nel mondo dei sistemi di democrazia liberale, che riteneva legata al capitalismo. Ma alla maggior parte dei capitalisti importa assai poco della qualità della democrazia: qualsiasi regime va bene se facilita i loro affari.

Con l’ex Unione Sovietica in pieno marasma e una Cina che all’inizio degli anni ’90 era solo un enorme serbatoio di manodopera a prezzi stracciati, l’Europa poteva pensare se stessa come nient’altro che un’area economica che funzionasse secondo i principi del paese economicamente più forte, la Germania ordoliberale. Un’area che, pur restando sotto la protezione militare Usa – ritenuta del resto ormai quasi superflua – avesse una moneta forte e un sufficiente peso specifico per sfruttare i vantaggi della globalizzazione. I tedeschi, peraltro, avevano ben capito quale grande vantaggio avrebbe dato alla loro politica mercantilistica (cioè a una crescita basata quasi solo sull’export) il fatto di fondere il marco con monete di economie più deboli. Nel Trattato di Maastricht è chiaro che la regolazione economica è l’aspetto principale, con direttive precise e obiettivi definiti per deficit e debito (i famosi 3 e 60%) e un requisito di tasso di inflazione richiesto addirittura per poter aderire alla moneta unica. Di obiettivi sociali si parla in modo molto più vago – quasi per dovere – e sono comunque subordinati a quelli economici, come prevede appunto la dottrina ordoliberale. Di obiettivi politici – un’eventuale evoluzione in senso federale – invece non si parla proprio.

L’Europa che abbiamo oggi è ancora quella, ma, come si diceva, il mondo è profondamente cambiato. La geopolitica ha ripreso prepotentemente la scena, prima con la rivalità Usa-Cina, con Washington preoccupata dall’irrompere del nuovo gigante economico da essa stessa suscitato, poi con l’aggressione russa all’Ucraina che ha ulteriormente – e pesantemente – contribuito a segmentare la globalizzazione, i cui limiti erano già stati messi a dura prova con la pandemia. Essere una grande area economica non basta più per giocare un ruolo nelle vicende del mondo. Per non essere nient’altro che una provincia americana bisognerebbe essere autosufficienti per quanto riguarda la difesa e avere una politica estera comune (le due cose, peraltro, sono strettamente legate). In parole semplici, essere uno Stato federale, cosa che non solo l’Europa non è, ma neanche mostra di avere intenzione di diventare. E tutti i discorsi sul fatto che stare in Europa è necessario perché nessuno Stato da solo, neanche i più forti come la Germania e la Francia, può contare qualcosa nell’ordine mondiale? Ma quelli si facevano pensando – appunto – che la storia fosse finita, e il mondo ormai sarebbe stato guidato nient’altro che dal commercio e dai capitali globalizzati. Quindi, bastava essere un’area economica forte e integrata, perché da contrattare c’erano solo gli accordi del “turbocapitalismo”, come il famigerato TTIP.

Oggi si è fatto un programma per conquistare una almeno parziale autonomia su una serie di prodotti e di materie prime strategiche per cui l’Europa dipende interamente o quasi dalle importazioni. Ma si tratta sempre di 27 Stati il cui organismo decisionale più importante (il Consiglio) è intergovernativo e può essere bloccato da un solo veto, con un bilancio comune di dimensioni ridicole, che si rifiutano di emettere debito comune – il NGEU sembra destinato a rimanere un’eccezione – persino per finanziare gli investimenti dichiarati di importanza cruciale.

La storia si è presa la sua rivincita, dimostrandosi tutt’altro che finita. Ma gli europei non sembra che se ne siano accorti, come dimostrano gli assurdi dibattiti sul Mes e sulle regole europee. L’Europa unita è un’illusione, e le sue classi dirigenti, che hanno costruito una gabbia insensata per il mondo di oggi, mostrano di non volerla cambiare. Forse sono preda di una sorta di “sindrome di Stoccolma”, si sono innamorati della prigione da essi stessi costruita.

C’è una via d’uscita? No, se non si cambiano completamente logiche e prospettive. E se a livello dell’Unione questa appare un’ipotesi lontanissima, sarebbero forse i singoli Stati a dover tentare una rivoluzione copernicana. Una possibile strada la indica un saggio appena pubblicato (“Merci senza frontiere – Come il libero scambio deprime occupazione e salari”, di Aldo Barba e Massimo Pivetti – ed. Rogas). E’ uno dei non molti libri che, alla fine delle sue analisi, disegna un quadro di proposte per una politica economica alternativa, su alcuni aspetti della quale si può magari non concordare, ma che ha comunque una sua coerenza complessiva ed è, appunto, diversa dalle politiche degli ultimi trent’anni, i cui risultati avrebbero dovuto da tempo farle gettare alle ortiche. Cercheremo di parlarne in un prossimo articolo.

(MicroMega il 9.7.2023)

Fonte: MicroMega il 9.7.2023

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