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Legge Fornero, pregi e difetti di una riforma contestata

È veramente difficile raccapezzarsi in un mondo che ragiona ed agisce secondo il criterio del “sentito dire”. Prendiamo il caso della legge n.92 del 2012 ovvero della riforma Fornero del lavoro.
Per mesi un anno fa, bastava metter piede a Bruxelles per essere interpellati su quando sarebbe stata approvata quella legge allora ritenuta fondamentale per le “magnifiche sorti e progressive” del nostro Paese.
Il presidente Mario Monti – preceduto da un valente commissario Ue che si precipitò al Senato, dove era all’esame il disegno di legge, a chiederne una sollecita approvazione – invitò la Camera a varare senza modifiche il testo di Palazzo Madama, allo scopo di potersi recare al vertice europeo di fine giugno 2012 con il provvedimento appresso (salvo assumere solenne impegno, in verità mantenuto, di apportarvi immediate successive modifiche).
Chi scrive ha udito con le sue orecchie il segretario generale dell’Ocse tessere le lodi del ministro Fornero, proprio quando in patria, su quell’atto, fioccavano le critiche. Più volte mi sono chiesto in quei mesi se davvero avessero letto con attenzione il testo iniziale coloro che ne tessevano le lodi, visto che, per quanto riguardava la flessibilità in entrata, quella stesura somigliava, con riguardo ai datori di lavoro, più ad un ‘’mattinale’’ di una Questura, dopo una retata notturna, che ad un progetto legislativo. Avendo lavorato a lungo sul disegno di legge nella passata legislatura, contribuendo a migliorarlo, non mi sottraggo, “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”, al diritto e al dovere di dire la mia opinione nell’intento di fornire delle proposte utili.
Perché, oggi, vedo presente il rischio che si butti, insieme all’acqua sporca, anche il bambino, con il concorso di quanti, in Europa e altrove, non esitarono a lodare il provvedimento. La principale critica che può essere rivolta, infatti, alla legge Fornero è quella di aver sconvolto un orizzonte in via di consolidamento del diritto del lavoro, in tutte le sue principali materie, mettendo le aziende – nel mezzo di crisi una profonda – di fronte a cambiamenti delle regole delle assunzioni, del licenziamento, degli ammortizzatori sociali e degli strumenti di governance del mercato del lavoro. Adesso è necessaria una tregua, sostenuta da un attento monitoraggio ed orientata più a modifiche operative piuttosto che a revisioni profonde.
Sul piano metodologico, dunque, il ministro Enrico Giovannini, a mio avviso, farebbe bene a sentire non solo le parti sociali, ma anche gli operatori del diritto (i consulenti del lavoro, i giuslavoristi e gli avvocati) allo scopo di compiere – attraverso la predisposizione di avvisi comuni – un censimento accurato degli inconvenienti pratici riscontrati nell’applicazione della legge in conseguenza di normative non sempre chiare e di aspetti confusi o irragionevoli, che non è stato possibile correggere del tutto.
A quest’ultimo proposito, ad esempio, dovrebbero essere riconsiderati – entriamo così nelle proposte di merito – i criteri in base ai quali opera la presunzione di legittimità (o di illegittimità) dei contratti di consulenza (o collaborazione) con titolari di Partita Iva. L’aver indicato dei parametri (18mila euro all’anno per un biennio) e dei limiti di durata (8 mesi) non è solo difficilmente applicabile ma finisce per creare problemi alle Partite Iva corrette, per motivi che sono evidenti: nessuno può sapere all’inizio dell’anno quale sarà il suo reddito; inoltre, non si capisce perché, trascorsi 8 mesi, il rapporto debba essere a rischio di sanzione, fino a prova contraria.
A mio avviso, sono sufficienti le definizioni e le declaratorie giuridiche che qualificano, nella legge, le posizioni ritenute legittime. Sempre proseguendo nel merito, è bene tener conto di come le aziende si stanno adattando agli indirizzi della nuova legge, rivolgendosi ad un maggior utilizzo del contratto a termine (a cui si applicano, per la sua durata, le medesime regole di legge e contrattuali di quello a tempo indeterminato) per approfittare dell’acausalità entro i primi 12 mesi e della somministrazione (a cui è stata riconosciuta anche la possibilità di ricorrere all’apprendistato).
Rafforzare tali tendenze è senz’altro utile per le esigenze di flessibilità delle imprese e per assicurare maggiori diritti ai lavoratori. In sostanza, per quanto riguarda i rapporti a termine non basta (forse non serve neppure) riavvicinare le pause tra un contratto e l’altro (la legge già ora affida questa facoltà alla contrattazione collettiva che meglio può adattarsi alle situazioni concrete). Se si vuole valorizzare questa tipologia contrattuale (peraltro in conformità con la Direttiva europea) occorre lavorare con coraggio sulla acausalità, abolendone ogni possibile riferimento per un periodo più lungo di 12 mesi (meglio se per tutti i 36 mesi in cui è consentito ricorrere a tale fattispecie).
Quanto alla somministrazione, ci si sta rendendo conto, anche in ambito sindacale, che si tratta di un tipo di “flessibilità buona”: ai lavoratori alle dipendenze delle società che operano nel settore si applicano contratti nazionali ed integrativi, è loro garantita un’attività di formazione (per la quale andrebbe ripristinata la precedente aliquota “tagliata” dalla legge n. 92).
Sarebbe il caso, allora, di abolire il “causalone” nella somministrazione, soprattutto se a tempo indeterminato, e di abrogare il vincolo dei 36 mesi. Per evitare abusi, si potrebbe rinviare alla contrattazione collettiva nazionale l’indicazione di un massimale numerico, rapportato in percentuale all’organico complessivo, per l’uso dei contratti a termine e di quelli in somministrazione, salvo consentire possibili deroghe concordate a livello decentrato. In conclusione, poiché la flessibilità in entrata non può essere ricondotta soltanto a rapporti di lavoro dipendente, trova ulteriore giustificazione una maggiore apertura nei confronti dei rapporti di consulenza e di collaborazione (tramite Partita Iva), come indicato in precedenza.
Va poi evitato lo spostamento in avanti dell’andata a regime del sistema Aspi, secondo quanto propone un settore del Pd che già aveva avanzato tale richiesta nella passata legislatura. Resta da considerare (e possibilmente correggere e semplificare) una disciplina caotica del licenziamento individuale, come quella contenuta nella legge Fornero. Lo si potrebbe fare, sul piano tecnico-giuridico, senza alterare il patto sottostante previsto per le diverse tipologie di licenziamento. Ma in questa materia si cammina su di un terreno minato.

Fonte: Formiche.net del 4 giugno 2013

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