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L’economia si salva solo perchè erode il capitale investito

Finalmente l’Istat, nel pubblicare i dati sul consuntivo dell’economia italiana nel 2005, ha quantificato il lavoro non nei termini consueti degli occupati, intesi come numero di quanti traggono un reddito dal proprio lavoro, o dei disoccupati, intesi questi come coloro che cercano un lavoro e per un qualsiasi motivo non lo trovano. Ha, invece, quantificato la quantità di lavoro impiegato nell’intero sistema produttivo, considerando il totale delle ore effettivamente lavorate e dividendolo per il numero di ore che un lavoratore regolare a tempo pieno avrebbe lavorato nell’arco dell’intero anno. E tornano finalmente conti che non tornavano.
È stata così disvelata, infatti, l’alchimia sulla quale punta il governo quando afferma, come unico aspetto positivo che può vantare nella gestione dell’economia negli ultimi cinque anni, che l’occupazione è salita. In effetti è cresciuto il numero di quanti hanno uin reddito da lavoro, ma questa crescita è stata ottenuta ripartendo la quantità di lavoro richiesta dal sistema produttivo su un maggior numero di persone, col risultato ovvio di una riduzione delle ore mediamente lavorate da ciascun lavoratore. Si spiega così l’arcano, al quale il governo non ha mai dato una risposta, di una occupazione che crescerebbe senza un riscontro in un aumento della produzione di reddito: la produzione (il Pil) ristagna per il semplice motivo che la quantità di lavoro impiegato diminuisce (e viceversa). Lo si sapeva, ma ora con l’avallo dell’Istat è tutto più chiaro e meno esposto alle interpretazioni soggettive e strumentali. Aggiungiamo che una crescita zero del Pil è sostanzialmente una recessione se il prodotto, anziché lordo, venisse calcolato al netto degli ammortamenti. Insomma, l’economia evita il segno negativo solo perché sta erodendo il capitale investito.
Le conclusioni da trarre sono diverse, ma due vanno subito sottolineate. La prima è che l’aumento dell’occupazione è un fatto positivo se e quando il sistema produttivo richiede più lavoro a fronte di maggiori opportunità di produrre a condizioni remunerative. Evidentemente non è questo il caso, trovandoci piuttosto in presenza di una operazione solidaristica per ripartire più ampiamente una minore quantità di lavoro e, beninteso, il relativo reddito. Si spiega così anche un altro arcano, è cioè la tenuta delle retribuzioni a fronte del deterioramento avvertito dai più del loro tenore di vita. Le retribuzioni hanno mediamente tenuto, certo, ma occorre anche vedere quanti lavoratori percepiscono quelle retribuzioni. Se si lavora part-time, o con interruzioni, o con contratti a progetto, o con lavori finto-autonomi, è ben difficile che quelle retribuzioni vengano percepite. Come si spiegherebbe altrimenti che la spesa delle famiglie (tutte, comprese quelle a reddito medio-alto) sia complessivamente aumentata appena dello 0,1 per cento?
Altra conclusione: il divario tra l’aumento dell’occupazione e la diminuzione delle ore effettivamente lavorate (è come se fossero stati persi ben 102 mila posti a tempo pieno) è la conseguenza della flessibilità introdotta dalla legge Treu e poi moltiplicata dalla legge impropriamente individuata col nome di Biagi. Ebbene, la stagnazione del Pil dimostra che il problema dell’economia non è li. Questa flessibilità era stata chiesta dalle imprese per poter razionalizzare l’impiego dei fattori della produzione, per poter meglio seguire la dinamica della domanda, per essere più elastiche nel cogliere le opportunità del mercato, insomma per essere più efficienti e competitive. Invece è servita solo per ridurre l’impiego della quantità di lavoro e la sua remunerazione media (chi obietta che è cresciuta l’occupazione a tempo indeterminato chieda al Censis quanta ne rimane dopo aver escluso il lavoro domestico e gli altri simili).
Bastava poco per rendere più evidente ciò che è avvenuto all’interno del sistema produttivo italiano. Ora tutto quadra, premessa questa, specie in tempi di programmi, per analisi più centrate e per interventi più efficaci.

Fonte: La Stampa del 6 marzo 2006

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