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L’economia è l’arma vincente per le guerre

«Ma è possibile che non sappiate più pronunciare la parola vittoria?». L’alto militare che prende la parola a una riunione degli strateghi di politica estera di Washington è quasi una caricatura del Pentagono: stivali texani, sfumatura a metà orecchio e un ben allenato sguardo che pare privo di palpebre. Ma recita solo il suo ruolo, perché sono gli stessi generali David Petraeus e prima di lui Stanley McCrysthal a non usare più il verbo “vincere” parlando di Afghanistan. Mentre le forze Usa sono impegnate in un nuovo fronte in Libia, il verbo “win” assume il suo altro significato: guadagnare.
In Afghanistan le truppe cominceranno presto il ritiro, sono previsti 10mila rientri prima di luglio. Ci saranno negoziati anche con le tribù radicali. Quanto alla situazione in Pakistan, non può essere cambiata con l’esercito. Lì c’è però una speranza: l’economia dell’India, dall’altra parte del confine, sta crescendo del 9% all’anno, quella pachistana si rimpicciolisce. Un giorno anche a Islamabad, come al Cairo o a Tunisi, vorranno cambiare.
La prospettiva del Nord Africa e del Medio Oriente dopo le rivolte ha riportato l’economia al centro della politica estera e di difesa. Si tratta di una riflessione con cui l’Italia stessa dovrebbe subito confrontarsi. In Germania le imprese stanno protestando col Governo per l’assenza dallo scenario mediterraneo, considerato in prospettiva più importante dei partner orientali. In Italia ci si preoccupa solamente di Lampedusa, anziché offrire una strada di consolidamento economico e democratico ai nuovi movimenti. Per cogliere il potenziale di sviluppo di quei Paesi – complementare per natura a quello europeo – servono iniziative sia di natura privata, sia di intervento collettivo. Un quadro di programma per l’area non può essere concepito da un solo Paese. Ma l’Italia ha l’interesse vitale – sia economico sia politico, vista la sensibilità ai flussi migratori – di impostare una proposta su scala europea. Dovrebbe farsene subito attrice.
Che una proposta simile sia assente in Europa, lo dimostra il fatto che gli interessi economici nazionali hanno prevenuto l’unità della risposta politico-militare. Anche in questo caso si è pensato di trovare un’intesa militare senza prima disegnare un’intesa economica. Nel mondo di oggi questa gerarchia non funziona.
Dal punto di vista di Washington si tratta della resurrezione di una vecchia questione che alcuni analisti avevano cercato di porre, senza successo, anche negli anni di Bush. Il terrorismo non è la causa, ma il sintomo del disagio economico dei Paesi musulmani. Combatterlo militarmente non serve a molto. Negli anni in cui al-Qaeda prendeva piede in Arabia il reddito medio calava del 10% all’anno. Il Paese arabo più ospitale con i terroristi, lo Yemen, è quello in cui il livello di malnutrizione è più alto, riguardando il 60% della popolazione. Nel Nord dell’Afghanistan non c’è alcun appoggio per i talebani perché sono visti come un ostacolo alla prosperità.
«Gli americani romanticizzano le rivoluzioni in ragione della propria storia» scrive Ken Pollack di Brookings, ma devono tornare a pensare in termini di riforme. Fin dall’inizio il vero problema era la stagnazione sociale, economica e politica degli Stati islamici, spinti in una condizione pre-rivoluzionaria. Dopo il discorso del Cairo del presidente Obama, Washington ha creato istituzioni di rapporto economico col Nord Africa. Una riflessione più generale si sta affacciando: se abbracciare il cambiamento nel Medio Oriente e in Nord Africa non significhi anche modificare una filosofia di politica estera e avvicinarsi a quella che caratterizza a parole la missione europea. Trasformare anziché invadere. Esportare il benessere attraverso il benessere. Nessun irenismo, se non lo faranno gli Stati Uniti lo farà la Cina.
«Gran parte delle motivazioni delle proteste degli ultimi tre mesi sono economiche, ma hanno assunto una dimensione politica immediata», spiega il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick. Non avere accesso al lavoro o ad altre opportunità di benessere ha esteso la protesta alla possibilità di far sentire la propria voce. I problemi economici non scompariranno solo perché un Governo autoritario sarà stato sostituito da uno con maggiore consenso popolare. Ma se in passato i cinesi avevano un vantaggio per il fatto di non avere alcun riserbo nel collaborare con i regimi autoritari in Africa, ora il vantaggio potrebbe essere ribaltato. Potrebbe nascere una competizione tra Cina, Usa ed Europa a chi offre una migliore prospettiva economica ai Paesi in trasformazione. Facilitando il cambiamento.
Per l’Italia il tema è particolarmente importante per la dimensione degli interessi economici nel Nord Africa. Ma anche per Roma si pone un problema simile a quello di Washington sul cambiamento di strategia rispetto a rapporti intrattenuti solo con i capi-regime. Muta di conseguenza la proposta economica da avanzare a popolazioni che riscoprono l’autogoverno. Preparare una proposta di sviluppo per i Paesi del Mediterraneo dovrebbe essere una priorità immediata del Governo italiano. Fino a che non sarà risolto il problema dell’alta disoccupazione giovanile, 25% nel Nord Africa, e dell’offerta alimentare, non ci sarà stabilità politica. Negli ultimi sei mesi i prezzi dei cereali sono cresciuti del 40% e quelli dello zucchero del 70%. Due terzi del consumo dei paesi del Nord Africa viene importato da popolazioni che crescono a un ritmo doppio rispetto a quello medio mondiale. La caduta degli autocrati significa aprire la possibilità di un sistema politico che si preoccupi di elevare la partecipazione al lavoro, oggi poco sopra al 30%, e la redistribuzione del reddito. Un modo civile, non militare, di esportare democrazia.

Fonte: Sole 24 Ore del 1 aprile 2011

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