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L’Economia e la Finanza che piacevano a Papa Woytila

La Storia dell’economia, della finanza e dell’impresa ricorderà a lungo il Pontificato di Giovanni Paolo II per l’umanizzazione delle attività economiche, per il riscatto del concetto di impresa, per la decolpevolizzazione della categoria del profitto e del ruolo dell’imprenditore.

E lo ricorderà perché mai prima di Papa Woytila un Pontefice ha tracciato un solco così profondo nelle menti e nell’animo di una generazione di uomini d’ impresa, di manager di banchieri, di economisti, di sociologi di ispirazione cattolica, prigionieri loro malgrado di un equivoco per decenni mai totalmente risolto: quello sul senso del profitto, dell’accumulazione del capitale, della trattazione del denaro, insomma di tutto ciò che le categorie del dialogo fra gli uomini hanno per secoli relegato nelle “sfere basse” delle vicende umane, talvolta come “farina del diavolo”, in contrapposizione alle cosiddette “sfere alte” che attengono alle questioni dell’’anima e dello spirito.
Il Pontificato di Giovanni Paolo II è stato provvidenzialmente collocato al crocevia di un passaggio epocale per l’evoluzione dell’economia e della società contemporanea, proprio come cent’anni prima era accaduto a Leone XIII, il Papa della prima importante Enciclica “economico-sociale”, la Rerum Novarum.

Così come Leone XIII fu testimone degli effetti perversi della prima industrializzazione del Vecchio Continente, con le evidenza dello sfruttamento dei lavoratori, gli arricchimenti cinici dei primi capitalisti, le ribellioni operaie al cui fianco la Chiesa si schierò, altrettanto Karol Woytila è stato testimone e protagonista di una fase del mondo che ha visto il fallimento del comunismo e del collettivismo marxista, il presunto trionfo del liberismo e l’alba del turbocapitalismo del terzo millennio.
Ma a differenza del primo, che non a caso fu definito il Papa socialista, Giovanni Paolo II non passerà alla Storia come il Papa capitalista, bensì come colui che fece sintesi dello storico conflitto tra lavoro e capitale, che promosse e catechizzò il mercato ed il profitto, che creò i fondamenti di un Capitalismo dal volto umano.
Il Novecento, lo ha visto come uomo di Chiesa e Pontefice nel momento in cui il crollo del comunismo con il fallimento dei modelli di economia pianificata marxista da un lato e la sconfitta del capitalismo nazista e del corporativismo fascista dall’altro, rischiavano di imporre il liberalismo come pensiero unico del terzo millennio. E probabilmente non ci sarebbe stato nulla di male se gli uomini non avessero interpretato la giusta istanza di libertà e di democrazia del liberalismo come arena per lo sfogo agli animal spirits del capitalismo, con libero mercato e profitto quali unici riferimenti ai quali orientare le attività produttive, e con i quali misurare il successo e qualificare il concetto di Bene.
La critica di Papa Woytila, non si illudano a sinistra, non è al Capitalismo ma al modo in cui esso è stato interpretato in talune parti del mondo, cinico, senza finalizzazione al bene comune, quale mezzo di arricchimenti fine a se stessi, negatore della dignità dell’uomo, esattamente come la critica che, da operaio di una fabbrica chimica polacca, egli aveva rivolto al comunismo. Ed è la stessa critica che il keynesismo ha fatto propria acquisendo il rispetto perfino dei monetaristi della scuola di Chicago.
Poteva un Pontefice così vissuto, profondo, tenace, fanatico assertore della centralità della persona in qualunque vicenda del mondo, tirarsi indietro? Non solo ciò non è avvenuto, ma nel campo dell’economia e della finanza, l’eredità di Giovanni Paolo II, più che un’opera avviata, è ormai irreversibilmente una realtà in parte acquisita ed in parte in via di progressiva assimilazione, anche oltre l’ambito dell’economia di ispirazione cristiana.
Se così non fosse come potremmo spiegare il fatto che concetti come etica negli affari, codici di comportamento nelle aziende, siano entrati a far parte, oltre che delle leggi, soprattutto del patrimonio della cultura aziendale e industriale di tutto il mondo evoluto? Alle vecchie categorie degli azionisti e degli investitori, quali punti di riferimento di imprenditori e manager, i cosiddetti “shareholders”, stanno subentrando progressivamente altre più complesse categorie di soggetti ai quali l’impresa deve rendere conto nell’economia del terzo millennio: i lavoratori, i fornitori, i risparmiatori, gli abitanti del territorio, le istruzioni sociali, i cosiddetti “stakeholders”. Ed ancora: sono sempre più numerosi i grandi gruppi industriali e finanziari che considerano la responsabilità sociale dell’impresa una componente ineludibile dell’agire che si compendia nei piani industriali o negli action plan. Ed inoltre: sono sempre meno infrequenti le conglomerate che elaborano Bilanci sociali o “sostenibili”, nella convinzione che il valore di un’impresa non sia solo quello espresso dal Roe o dal Roi, il ritorno del capitale investito o degli investimenti effettuati, ma sia anche quello espresso dal capitale umano e della crescita del benessere attorno all’impresa, non solo nell’impresa fatta di azionisti e manager.
Ebbene, non è forse questo un lascito della dottrina sociale della Chiesa? Non sono forse queste ispirazioni il frutto di mutamenti profondi del modo di concepire il lavoro ed il business, frutto di encicliche come Laborem Exercens 1981, (il diritto al lavoro per ogni uomo come contributo al progresso della scienza all’elevazione morale della società) come Sollicitudo Rei Socialis , 1987, ( La ricerca dell’’autentico sviluppo dell’uomo della società) e soprattutto la Centesimus Annus , 1991,( La centralità e la dignità della persona come metro nel lavoro, del capitale, dell’imprenditore e del profitto)?
Ciò che Giovanni Paolo II lascia al mondo è la realtà di un’economia, un’industria ed una finanza non più definibili cattoliche al cospetto di finanze laiche. Dal quel lontano 1982, quando un ministro democristiano del Tesoro come Beniamino Andreatta, in Parlamento si rivolse al Santo Padre dell’epoca, proprio Giovanni Paolo II, per reclamare la restituzione allo Stato italiano di alcune centinaia di miliardi dello IOR mancanti ai bilanci scellerati dell’Ambrosiano di Roberto Calvi, l’onda d’urto di quella “frustata” ha consentito che i fermenti della finanza cattolica di allora diventassero oggi in una realtà fatta di uomini, valori, obiettivi di bene comune ormai condivisi da tutti i veri contemporanei Capitani d’industria. Così come con Croce “non possiamo non dirci cristiani” con Giovani Paolo il Grande la dottrina economica liberale del mondo, non può non dirsi “dottrina sociale”.

Fonte: "Il Giornale" del 13 aprile 2005

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