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Le scomode cifre di una rincorsa

«Credo solo alle statistiche che manipolo personalmente», pare solesse dire Winston Churchill. Sotto questo profilo, gli emuli di Churchill in Italia sono numerosi: non c’è numero che non venga discusso, masticato, metabolizzato e ridotto a verità parziale, relativa, interpretabile. Dopo tanto baloccarsi, molto spesso, poi, non si ha il coraggio di guardare davvero al cuore del problema.
Edè soprattutto nella politica italiana che i dati di fatto perdono peso e sono messi in ombra, a tutto vantaggio di cangianti questioni di contesto.
Per agevolare, al contrario, la visibilità dei fatti in quanto tali, il prossimo numero del mensile IL, in edicola domani, dedica la storia di copertina allo stato dell’Italia, ovvero una fotografia ragionata del nostro Paese sulla base di classifiche internazionali, dati e problemi evidenziati dai principali think tank economici. Prendiamo, ad esempio, il quadro che si ricava dal rapporto Doing business, che la Banca Mondiale realizza ogni anno sin dal 2003 e che attualmente prende in considerazione 11 indicatori relativi a 183 Paesi.
Per misurare quanto un ordinamento renda semplice e poco costoso l’esercizio dell’attività di impresa, Doing business divide la vita dell’azienda in quattro momenti fondamentali: l’atto fondativo, il suo avvio, lo svolgimento dell’attività, la sua liquidazione (ogni fase si traduce in azioni tipiche della vita aziendale e viene stilizzata in alcuni indicatori). Ebbene, nell’ultimo rapporto elaborato dalla World Bank l’Italia occupa l’87esima posizione nella graduatoria aggregata.
Non basta: l’Italia ha una posizione mediamente peggiore di quella dei Paesi Ocse ad alto reddito su tutti gli indicatori (per esempio, se si tiene conto della registrazione dell’impresa: siamo settantasettesimi; se si valuta l’accesso al credito l’Italia si colloca in 98esima posizione, su una media Ocse di Paesi ad alto reddito intorno al 41° posto).
Ma va da sé che il ritardo italiano si rivela particolarmente elevato negli indicatori che danno conto della possibilità di ottenere il rispetto del contratto per via giudiziaria (posizione numero 158): da noi, del resto, i costi arrivano al 30% del valore del contratto di cui si chiede il rispetto e servono in media 1.210 giorni per vedere soddisfatti i propri diritti contro meno di 600 giorni nella media dei Paesi Ocse ad alto reddito.
Ma questo significa che non sono stati fatti sforzi sul terreno delle regole dai governi degli ultimi anni? No. A determinare la perdita di posizioni in classifica è stato anche il fatto che gli altri corrono più di noi e quindi determinano un peggioramento nella graduatoria relativa. La qualità delle regole di un Paese è certamente uno degli elementi che contribuiscono a determinare la dinamica della produttività totale dei fattori.
E, come si ricava dai dati evidenziati dall’Arel, il decennio che abbiamo alle spalle si è rivelato un’occasione perduta per il nostro Paese proprio sul terreno della crescita e della produttività anche perché l’Italia non ha saputo cogliere appieno le opportunità della rivoluzione tecnologica. Significativo, al riguardo, è il confronto fra le divergenti traiettorie di sviluppo che nell’ultimo decennio hanno caratterizzato Italia e Germania, ovvero due Paesi caratterizzati entrambi da importanti poli manifatturieri e da un modello di crescita trainata dalle esportazioni. Così nell’ultimo decennio il saldo delle partite correnti in Germania ha registrato incrementi costanti, passando da un disavanzo dell’1% nel 1999 a un avanzo di quasi 5 punti di Pil, mentre l’avanzo commerciale è arrivato a toccare l8% del Pil nel 2008. Nello stesso periodo invece in Italia le esportazioni nette sono arretrate in media di quasi due decimi di punto, comparendo tra gli elementi determinanti della flessione dello sviluppo. Inoltre, in quegli anni l’apertura commerciale della Germania è passata dal 19% al 38% mentre quella italiana non è arrivata a superare il 20 per cento. Come si spiega questo andamento divergente?
L’Arel evidenzia due aspetti: la riorganizzazione interna e internazionale delle imprese tedesche; la dimensione d’impresa, un fattore molto importante per garantire la capacità di stare sul mercato globale. Inoltre, si sottolinea che in questi anni, a differenza dell’Italia, la Germania ha continuato a investire nella formazione professionale e nell’educazione in generale. E qui si tocca con mano un altro aspetto molto importante nel determinare quel male oscuro di cui soffre da anni l’economia italiana, ovvero le carenze sul lato dell’education, che sono carenze di capitale umano. L’inchiesta del magazine IL ricorda, tra l’altro, sulla base dei dati Ocse, la percentuale della popolazione nella fascia di età compresa fra i 35 e i 44 anni in possesso di un diploma d’istruzione secondaria superiore è pari all’88,6% negli Usa, all’86,9% in Germania e soltanto al 57,1% nel nostro Paese.

Fonte: Sole 24 Ore del 19 settembre 2012

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