di Giuseppe Pennisi
La settimana scorsa, questa testata aveva sottolineato come, nella preparazione dei documenti di bilancio e, quindi, nella definizione della politica di finanza pubblica, il ministro dell’Economia e delle Finanze – e dunque il dicastero che, al tempo stesso, rappresenta e guida – fosse colui che dà le carte. In poche concitate ore è cambiato tutto. Al tavolo del Consiglio dei Ministri, Tria ha sfoderato il due di coppe senza essersi reso conto che briscola era denari. Oppure – come sostengono altri – aveva il biglietto vincente della lotteria e, per errore, lo ha buttato nella spazzatura. Trasformando il suo ruolo da quello di protagonista (come in tutti i Paesi Ocse) a quello di comprimario, ove non di comparsa tra le “dramatis personae” della politica economica italiana. Dopo avere sostenuto per settimane che l’asticella del rapporto tra indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (ossia deficit annuale) era all’1,6% per il 2019, pena l’aumento del debito pubblico e sfiducia di chi lo acquista, ha accettato un obiettivo del 2,4% per ciascuno dei prossimi tre anni, ottenendo il plauso (sotto il balcone di palazzo Chigi) della folla osannante del Movimento 5 Stelle.
Attenzione, si tratta di “obiettivo programmato” che negli ultimi anni è stato quasi sempre superato: il preconsuntivo Istat per il 2017, pubblicato il 21 settembre, ci ricorda e ammonisce che per l’anno scorso l’obiettivo programmato era l’1,8%, e comunque al di sotto del 2%, mentre ha toccato il 2,4%. E probabile uno sforamento anche nel 2019. Inoltre – è questo l’aspetto più grave – il deficit non va a finanziare investimenti per la crescita, ma spese correnti in gran misura a carattere assistenziale e tali da incoraggiare il sommerso e l’inadempienza tributaria.
Molti altri hanno criticato, in questi giorni, gli aspetti delle misure specifiche che portano all’aumento del disavanzo e verosimilmente del debito pubblico. La Borsa ha salutato il programma che non brusco calo. Lo spread con un aumento. Nell’immediato, quindi, famiglie e imprese hanno avuto una perdita netta. Sorridendo, il Presidente del Consiglio afferma che tutti guadagneranno quando i mercati avranno finalmente capito il significato della manovra.
È prematuro commentare le misure in dettaglio. Un aspetto poco notato (e fondamentale) è la perdita di centralità del ministero dell’Economia e delle Finanze inevitabilmente associata alla perdita di centralità del Ministro pro-tempore. Dopo la svolta degli ultimi giorni, come potranno andare a negoziare le posizioni dell’Italia non solo il Ministro ma anche i dirigenti del dicastero? Travolta, con un sorriso e un applauso, quella che era sembrata essere “la linea del Piave”, tutta un’amministrazione appare perdente. L’Italia è non solo più povera, ma anche più debole.
Si dice che il Ministro sarebbe stato frenato dal dare le dimissioni da una telefonata del Capo dello Stato che temeva un vero e proprio caos in seguito a un’eventuale crisi di governo. È possibile e sarebbe un’indicazione di responsabilità se restasse al suo posto sino all’approvazione della Legge di bilancio e immediatamente dopo rimettesse irrevocabilmente il proprio mandato. In un paio di occasioni nella mia carriera al servizio dello Stato, anche io ho aspettato che si calmassero le acque prima di lasciare l’incarico. Non erano certo posizioni equivalenti a quella di un ministro dell’Economia e delle Finanze il cui destino incide sul ruolo di un dicastero vitale per il Paese.
È doveroso ricordare che quando il ministro degli Affari esteri Renato Ruggiero mostrò l’intenzione di dare le dimissioni dal secondo Governo Berlusconi (per incompatibilità tra la linea liberista ed europeista sua e del dicastero e quella localista della Lega Nord) non ebbe una telefonata dal Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, ma un lungo colloquio privato al Quirinale. Mantenne la propria posizione non solo per coerenza con le proprie idee (manifestate in più occasioni), ma anche per indebolire la posizione del Ministero di cui era titolare.
Torniamo alle “dramatis personae” di questa politica economica. In una delle ultime opere di Richard Strauss (ispirata da Stefan Zweig), uno dei personaggi (un vecchio capocomico) declina che per un attore non è importante come si entra in scena e neanche cosa si fa quando si è in scena, ma come si esce dal palcoscenico. È una frase che a via Venti Settembre vale una riflessione.
(il Sussidiario del 1 ottobre 2018)
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