di Franco Debenedetti
Quello che più colpisce soni i tempi: CDP ha palesato il suo orientamento a rilevare fino al 5% di TIM mentre è in atto una contesa per la governance tra Vivendi, che ne detiene il 24%, e il fondo attivista Elliott, che sarebbe prossimo al 10%. L’intervento dello Stato altera evidentemente il rapporto tra due contendenti nel mercato, mentre proprio la Consob dichiara di non vedere ragioni per un suo intervento, essendo il giudizio civile la sede in cui le parti in causa devono risolvere le proprie controversie. Quale rischio corre “il sistema Italia” perché sia necessario l’intervento dello Stato per tutelarlo? Ma non c’era già il golden power? Se vince Vivendi, non cambia nulla rispetto a ora, se vince Elliott, c’è tempo quanto si vuole per intervenire ove mai si profilasse chissà mai quale pericolo.
Certo che è per la rete. Che la Cassa ambisca a controllarla, e coronare così il sogno di completare la società delle reti, oltre a elettricità con Terna, e gas con Snam, lo si sa da quando a reggerla era il precedente consiglio. Che a ogni screzio con i vertici TIM, dietro il Ministro dello Sviluppo economico ci fosse sempre lo spauracchio dell’Ente che si definisce “promotore del futuro dell’Italia contribuendo al suo sviluppo economico”, pure. Ma Vivendi ha confermato, più o meno, sua sponte di volere procedere alla societarizzazione della rete: certo non è l’apertura del capitale, ma è già un passo che la rende all’occorrenza fattibile senza problemi. Elliott ha inserito nel suo menù di proposte l’dea di venderne una quota. Se davvero è la rete l’obbiettivo di CDP, perché distrarre 750 milioni di risorse preziose “per il futuro dell’Italia” bloccandolo in azioni TIM, quando, dopo una societarizzazione sulla quale i due contendenti sono d’accordo, costerebbe meno prendere una quota della sola rete?
Se non ci sono né evidenti guadagni economici, né opportunità strategiche per intervenire proprio adesso, devono essere altri i cambiamenti di cui CDP vuole approfittare, altri i giochi in cui vuole inserirsi: non cioè quello eventuale tra azionisti in consiglio di amministrazione, ma quello tra inquilini di Palazzo Chigi. Con il che la vicenda si fa ancora più delicata: è stato il Governo stesso a preferire di “investire” 750 milioni per scongiurare l’eventualità di trovarsi tra le mani una patata calda dopo l’assemblea di TIM? Oppure è un Governo non nel pieno delle sue funzioni che preferisce non resistere a un atto di forza di CDP, i cui vertici sono, com’è noto, in scadenza?
Potrebbe essere un altro il cambiamento che avrebbe indotto CDP a prospettare la sua mossa, ancora più ambiziosa l’occasione che i suoi capi non vogliono lasciarsi sfuggire: quella di anticipare quanto più possibile l’adeguamento dell’ente al nuovo clima politico che sta dilagando nel Paese, e offrirsi alle nuove opportunità che la nuova ideologia non mancherà di offrire. Far capire che, se si prospetta il ritorno dello Stato proprietario, dello Stato che produce “posti” e, invece di proteggere i lavoratori, protegge posti di lavoro esistenti, se si propongono faraonici piani di investimento, ovviamente finanziati a debito, questo è il paradiso di CDP: niente niente a qualcuno venisse in mente di farne una diversa. Statalismo più sovranismo: “il nostro stato deve tornare a farsi rispettare dai cugini d’oltralpe, è fondamentale riprendere, da mano straniera, la nostra infrastruttura tecnologica e di telecomunicazioni”: parole di Stefano Buffagni. Non che si tratti di cose del tutto insolite, le abbiamo sempre sentite circolare in Italia, anche in bocca a uomini di Governo. Ma quando sentiamo aggiungere “perché l’interesse pubblico è sovrano in un’Italia a 5 stelle”, allora capiamo che stiamo perdendo quello che eravamo riusciti a costruire in 20 anni. Perché se lo Stato può entrare nel capitale di un’azienda privata per avvantaggiare un azionista a 20 giorni dall’assemblea, senza neppure il pretesto dell’italianità da salvare, dato che i due contendenti sono entrambi stranieri e al massimo si discuterà dell’italianità del presidente, allora tutto è possibile, dalla gare per l’ILVA a quella per l’Alitalia: altre occasioni non mancheranno.
Il passaggio da un monopolio pubblico di successo a uno dei mercati più concorrenziali del mondo non è stato semplice, tra ambizioni ed errori, con il puntuale contorno di veti politici e interventi della magistratura. Il disegno strategico di Vivendi sembrava potesse accompagnare Telecom a un futuro di media company: la gestione tuttavia è parsa anche peggiore delle precedenti, in cui si era cimentato, con le note difficoltà, quanto di meglio l’imprenditoria italiana sa esprimere. Se ora dovesse realizzarsi il disegno di separare la rete, e di riunirla a Open Fiber sotto il controllo dello Stato, avremmo ricostituito il monopolio e sprecato le risorse spese, tra contatori Enel e interventi per i “fallimenti di mercato”, per avere la concorrenza che negli altri Paesi è rappresentata dalla rete in cavo. Senza rete, TIM resterebbe una catena di negozi e una rete commerciale: non potrebbe che finire integrata in un realizzatore/rivenditore di contenuti, aperto, nel nuovo clima politico, a combinazioni finora impensabili.
Chi l’ha demonizzata come la peggiore delle privatizzazioni, può essere fiero di ciò che ha ottenuto: la rete rinazionalizzata, una delle nostre poche grandi aziende dissolta.