• lunedì , 16 Settembre 2024

Le riforme liberali sono già fatte

L’andamento concitato e velenoso della polemica politica di questi mesi rischia di togliere lucidità e consapevolezza strategica all’azione del governo di Silvio Berlusconi. Questo continuo rumore di fondo finisce per offuscare le ragioni profonde che hanno reso possibile la vittoria elettorale della coalizione di centrodestra. Ma andiamo con ordine e facciamo qualche passo indietro per capire dove siamo.
L’Italia si è resa conto con ritardo delle trasformazioni profonde della fine del ’900. E mentre, negli anni Ottanta, altrove iniziava un processo di ristrutturazione dello stato, in senso meno dirigista e più liberale, noi abbiamo dovuto attendere la caduta del Muro di Berlino per prendere atto che il nostro modello istituzionale, politico e sociale era divenuto insostenibile. Questa è una delle principali ragioni che hanno spinto la finanza pubblica fuori controllo, determinando una spesa, una tassazione e un debito pubblico eccessivi. Quest’ultimo, cresciuto negli ultimi vent’anni di oltre 30 punti percentuali (fino al 115,8 per cento del pil nel 2009), grava su tutti i cittadini, anche sotto forma di un’opprimente pressione tributaria, ponendo problemi di equità intergenerazionale e di sostenibilità finanziaria. Un debito che strozza la libertà della politica di bilancio, proprio quando sarebbe decisiva per contrastare le avversità del ciclo economico.
L’avvento dell’Unione economica e monetaria in Europa e della Seconda Repubblica in Italia hanno segnato il punto di svolta. Ma il processo è stato assai più lungo e travagliato di quanto si potesse sperare. Esso è ancora in evoluzione, come dimostra, ad esempio, l’introduzione del concetto di debito “allargato”, o meglio sostenibile, accolto a livello comunitario grazie a una richiesta italiana.
Sul piano interno il conflitto politico e istituzionale, in un crescendo di polarizzazione e contrapposizione, ha dominato la scena dal ’94 a oggi. L’agenda liberale, che aveva segnato la discesa in campo di Berlusconi, è passata in secondo piano, osteggiata e combattuta con ogni mezzo. Ma la storia ha continuato a camminare. Gli inarrestabili processi di ristrutturazione globale si sono consolidati e attendono ancora in larga parte di essere affrontati. Le vicende della crisi sono in parte dovute all’insufficienza di una governance di questi sviluppi.
Il quindicennio trascorso è stato dominato soprattutto dalla ristrutturazione politica. Alcune riforme economiche e sociali sono state fatte (un parziale risanamento, pensioni, mercato del lavoro, diritto societario), ma ci si è concentrati soprattutto sulla “meccanica” del funzionamento istituzionale: legge elettorale, (tentativi di) grande riforma dello stato, nuovo Titolo V della Costituzione (come peggio non si poteva fare), ristrutturazione del sistema dei partiti. Tutti obiettivi che, con alterne fortune, hanno permesso il mantenimento di un sistema di tipo bipolare. La semplificazione politica (intorno a Pdl e Pd) e la solida maggioranza ottenuta dal centrodestra sono sembrate offrire l’opportunità per impostare, finalmente, la realizzazione di quell’agenda liberale che avrebbe dovuto rilanciare il paese.
Lo scenario di fibrillazione politica permanente, a sinistra e a destra, nel governo e nell’opposizione, rischia di offrire, a prima vista, una lettura non in linea, e finanche distorta, di questi primi due anni di legislatura.
Invece, in questi anni, nonostante tutto, si è prodotto un mosaico di riformismo pragmatico, le cui varie tessere, ciascuna di significativo peso specifico, tracciano, a posteriori, il profilo di un’agenda liberale in fieri. Un’agenda di grande spessore come mai si era vista negli ultimi decenni nel nostro paese. Essa ruota intorno a una decina di grandi riforme: il federalismo fiscale, la modernizzazione della Pubblica amministrazione, le nuove procedure di bilancio, la riforma delle public utilities locali, i numerosi interventi in materia di semplificazione amministrativa e normativa, le riforme dell’università e della scuola, gli interventi in materia di giustizia e, infine, il progetto di riforma degli articoli 41, 97 e 118 della Costituzione.
Per capire quanto sistemiche e intrecciate siano tutte queste azioni si deve partire proprio dall’orizzonte di una grande riforma neoliberale. Ossia da una piattaforma di regole minime che favoriscono il mercato e premiano l’iniziativa. Non va dimenticato infatti che l’imperativo liberale impone di considerare lo stato meramente strumentale rispetto allo sviluppo della società. Non viceversa. Un valore che persino la nostra Costituzione, generata dall’armistizio cattocomunista, non manca di riconoscere anche negli articoli all’apparenza più statalisti. Si pensi a quell’articolo 3, invocato spesso dagli epigoni dell’egualitarismo esasperato, dove si parla dell’esigenza di “rimuovere” gli ostacoli che “impediscono lo sviluppo della persona”. Di “liberare”, dunque, all’insegna delle opportunità, non di livellare tutti quanti nei punti di arrivo.
Il miglioramento delle prestazioni dello stato è il primo capitolo di un’agenda liberale. I beni pubblici vanno resi efficienti. Il loro rendimento dev’essere massimo al minimo costo per la collettività. Le riforme della Pubblica amministrazione, del federalismo fiscale e delle procedure di bilancio, nella loro interazione reciproca, concorrono ad allocare e usare in modo efficiente le risorse scarse, a migliorare la qualità dei servizi prodotti, a valorizzare il merito, a disciplinare la finanza pubblica. Un esempio? La grande intuizione federalista consistente nella riduzione della spesa pro capite e del disequilibrio dei trasferimenti tra Nord e Sud attraverso il passaggio dal criterio della “spesa storica” a quello dei “costi standard” dei servizi, non potrebbe avere alcun senso se, contemporaneamente, non si realizzassero dei dispositivi per stabilire standard di efficienza e applicare indicatori di qualità nei servizi pubblici. Senza la riforma del ciclo della performances delle amministrazioni pubbliche e senza l’istituzione, come abbiamo fatto, di un’autorità per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, il criterio dei costi standard rimarrebbe una pura operazione contabile che sfuggirebbe al concreto apprezzamento dei cittadini-utenti.
Nello stesso tempo, la riforma federale e quella del bilancio consentono di realizzare un’uniformità dei criteri contabili tale da rendere misurabili e quindi comparabili le performances delle varie amministrazioni nazionali e locali. La prima permette di superare i difetti di un regionalismo deresponsabilizzato che ha fatto perdere il controllo sui bilanci regionali e degli enti locali. La seconda, attraverso la centralizzazione delle procedure, rende la politica di bilancio meno incline al deficit, alle spese e/o alle tasse eccessive e bilancia le spinte eccessivamente divaricatrici connesse al federalismo fiscale.
Un’amministrazione pubblica efficiente, che offra servizi di qualità, non può realizzarsi senza che vi sia una qualità elevata dei suoi “operatori”. Da qui la scelta di valorizzare concretamente il merito in termini selettivi, cioè non più aumenti salariali per tutti (todos caballeros come si è fatto in passato) ma premi per chi effettivamente dimostri di impegnarsi e produrre di più. Questo criterio, che rappresenta il cuore della cosiddetta “Riforma Brunetta”, diventerà anche un principio di rango costituzionale se il Parlamento vorrà approvare la mia proposta di modifica dell’art. 97 della Costituzione.
Ma riqualificare lo stato non basta. In prospettiva liberale il suo ruolo dev’essere complementare, non preponderante. E’ necessario, dunque, agire in parallelo per liberare la società e il mercato dall’invadenza dello stato, affinché la prima favorisca l’iniziativa individuale e il secondo svolga la sua funzione di selezionare i beni e servizi migliori al minor prezzo.
L’esigenza di mercati concorrenziali è fondamentale. Sappiamo tutti che i settori economici più aperti alla concorrenza sono anche quelli che in questi anni hanno avuto maggiore capacità di ristrutturarsi e di produrre maggiore ricchezza. L’apertura alla concorrenza di mercati come quello dei servizi pubblici locali (altra riforma attesa da decenni che questo governo ha già varato), costituisce un altro aspetto fondamentale del mosaico riformista. Essa incide su una realtà che complessivamente fattura oltre 43 miliardi di euro l’anno e ha un valore patrimoniale di circa 20 miliardi. Consumatori e imprese debbono poi essere alleggerite dal peso oppressivo dell’eccesso di burocrazia, vale a dire liberate dal surplus di adempimenti e oneri ingiustificati o barocchi. I valori della semplificazione e della tempestività amministrativa debbono essere, già a livello costituzionale, le linee guida dell’azione pubblica. In questo quadro s’iscrivono tutte le misure di semplificazione degli adempimenti che questo governo ha varato: la riforma della conferenza dei servizi, la possibilità di inviare per via telematica istanze e progetti per le concessioni edilizie, l’istituzione del fascicolo elettronico delle imprese presso lo sportello unico delle Attività produttive. Così come in fieri sono la segnalazione certificata di inizio attività (la cosiddetta Scia) e l’introduzione di criteri di proporzionalità nelle procedure amministrative in relazione alla dimensione, al settore produttivo.
A ciò si aggiungano le misure di contrasto alla corruzione e quelle volte alla diffusione della cultura dell’integrità nell’amministrazione che, insieme alle iniziative di lotta all’evasione, costituiscono la condizione per una competizione equa tra cittadini e tra imprese.
Per tutte queste ragioni è giunto, finalmente, il momento di aggiornare la nostra Costituzione accentuandone i connotati chiaramente e deliberatamente liberali ed eliminando i residui di un modello dirigista obsoleto. Lo si deve fare seguendo i binari fissati dalla stessa Carta, all’articolo 138, e sollecitando il confronto più aperto (senza annacquare l’ispirazione liberale), così da rendere la maggioranza costituzionale forte, decisa e coesa in caso di referendum confermativo.
La riforma dell’articolo 41, in linea con i principi dell’ordinamento comunitario, per un mercato aperto e concorrenziale, dovrà finalmente stabilire che l’iniziativa economica privata non è un’attività sospetta, da dirigere e controllare, e che non può incontrare limiti se non quelli strettamente necessari al rispetto di vincoli costituzionali. Allo stesso modo, proprio per affermare con forza il principio liberale, secondo cui l’intervento pubblico avviene solo là dove l’interesse generale non possa altrimenti essere perseguito, la nuova riforma costituzionale dovrà rafforzare il principio di sussidiarietà orizzontale, stabilendo che lo stato e gli altri enti pubblici non solo favoriscono, ma anzi “privilegiano” l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.
Come si vede, componendo i vari tasselli di questo mosaico, il cambiamento riformista viene fuori nitido e attendibile. E’ una grande occasione per l’Italia. Per l’Italia di tutti. Un’occasione per definire quella nuova visione che superi le grandi narrazioni politiche novecentesche e ci proietti verso una società più aperta e dinamica. Certo, ci sarà sicuramente qualche purista che si affretterà a ricordare che i problemi sono ben altri e che ben altre dovrebbero essere le riforme. A costoro non posso far altro che ricordare le parole di Federico Caffè a proposito della solitudine del riformista, il quale “è ben consapevole d’essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi, soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo”.
La legislatura è a metà del cammino. Troppo lontana dall’inizio perché ci si possa nascondere dietro alle difficoltà dell’avvio ma troppo distante dalla fine per adagiarsi sull’abbrivio e sui bilanci. Viviamo una stagione che non consente divagazioni e suggestioni, e abbiamo alle spalle un lavoro che permette di passare alle più importanti realizzazioni. Si tratta, però, di mantenere salda sia la consapevolezza di quel che si è fatto, che la responsabilità di ciò che resta da fare. Questo, del resto, è il compito della politica e su questo si misura la qualità di una classe dirigente. Chiacchiere, conflitti, polemiche e schermaglie possono pure occupare e colorire la cronaca quotidiana ma, da sole, lascerebbero vacante e scolorita la storia, rendendo colpevolmente incompiuta la nostra missione.

Fonte: Il Foglio del 15 luglio 2010

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