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Le imprese fuggite tornano in patria e le famiglie si scoprono meno indebitate in un’America autosufficiente

La sorpresa del 2012 è stata la sopravvivenza dell’euro, come ha scritto il Wall Street Journal e come rilanciato ieri dal Foglio. E se la sorpresa del prossimo anno venisse dall’America? I segnali sono tanti e sono molto incoraggianti. Tutti puntano gli occhi sul “fiscal cliff” e anche i mercati sperano che venga raggiunto un accordo per evitare, o almeno spostare in avanti, il baratro. Ma non si può essere più keynesiani di Keynes e credere che la politica fiscale sia tutto. Alla fine contano gli “animal spirits”, come diceva lo stesso economista inglese. Cosa si sta muovendo nel settore privato, tra le imprese e nelle famiglie? E le banche, alfa e omega della crisi del 2007-2008? Se andiamo sul sito della Federal Reserve di St. Louis, grande serbatoio di dati, troviamo grafici che fanno a pugni con i luoghi comuni. A cominciare da quello sul prodotto interno lordo in termini reali. Già dal 2011 ha pienamente recuperato tutto il terreno perduto durante la recessione del 2009.
La Fed sostiene che il ritmo è troppo lento per lo standard americano: nell’ultimo trimestre siamo a una crescita del 2,7 per cento. E la produzione industriale non ha ancora raggiunto lo stesso livello ante crisi. Tuttavia il trend è in salita costante da due anni e s’avvia a toccare i 14 mila miliardi di dollari, due in più rispetto a un decennio fa. Se questo è declino. Anche la bilancia con l’estero migliora, grazie all’indebolimento relativo del dollaro e a una ritrovata forza del made in Usa. La manifattura sta vivendo una nuova fioritura e molte imprese rimpatriano gli impianti dall’estremo oriente. Il rilancio dell’auto sta lì a dimostrare questo ritorno all’industria. E’ una “jobless recovery”? Lo è stata, ma negli ultimi mesi si stanno creando nuovi posti di lavoro. In ogni caso i disoccupati sono scesi sotto l’8 per cento, una quota alta per gli Stati Uniti, ma inferiore a quella europea. Importanti cambiamenti strutturali influenzano la congiuntura. I costi dell’energia per le imprese calano grazie alla rivoluzione dello shale gas e ai nuovi giacimenti petroliferi che trasformeranno gli Stati Uniti nel più grande produttore mondiale alla fine di questo decennio, consentendo di raggiungere l’autonomia nel prossimo. Ciò crea un vantaggio competitivo del quale si lamentano le imprese europee anche perché nel Vecchio continente i costi energetici salgono e la dipendenza dalla Russia e dal medio oriente si fa più stringente e pericolosa. Il colosso tedesco Siemens ha chiesto che Bruxelles intervenga per compensare il gap, scrive il Financial Times, e i grandi gruppi mettono in moto tutto il loro potere lobbistico affinché l’Ue li sovvenzioni per resistere alla controffensiva americana. Cambiano le regole del gioco, sottolineano gli europei, e da questo punto di vista hanno ragione. Il ribasso nei costi energetici è destinato a diventare il più potente antidoto all’inflazione potenziale generata dalla Banca centrale.
La Fed manterrà i tassi a livello zero fino al 2015. Dunque, è il momento di investire. Per ora il costo della vita sale del 2,2 per cento appena. Ma prima o poi tutta questa moneta farà salire i prezzi. La scommessa è cogliere il prima e rinviare il poi. Secondo punto forte è il deleveraging, cioè la riduzione dei debiti eccessivi su famiglie e imprese. Il mercato immobiliare mostra chiari segni di ripresa. Le banche sono state ricapitalizzate e oggi sono piene di utili. Nel terzo trimestre i 7.181 istituti hanno guadagnato 37,6 miliardi di dollari, il 6,6 per cento in più rispetto a un anno prima. I consumatori stanno sistemando i loro debiti con le carte di credito; un circuito che non è saltato, malgrado quel che giuravano i profeti di sventura.
Non esiste, nonostante tutto quel che si sente dire e si scrive, un’alternativa al dollaro che manterrà a lungo la sua egemonia. Uno studio della Federal Reserve di New York toglie ogni speranza ai potenziali concorrenti, a cominciare dall’euro che in questi dieci anni non ha scalfito il predominio del biglietto verde negli scambi commerciali, nella finanza e nemmeno come riserva di valore, anzi la globalizzazione ha esteso il numero di economie “dollarizzate”. Si sta parlando in modo sempre più concreto di un accordo di libero scambio tra Stati Uniti ed Europa, simile al Nafta nordamericano, così da creare un mercato integrato in grado di controbilanciare l’Asia. Se decolla può diventare la molla del nuovo ciclo di sviluppo, come l’apertura alla Cina lo fu di quello precedente. E c’è già chi parla di èra atlantica della globalizzazione.
Il primato tecnologico ancora in mano. Per spiegare gli alti e bassi di Wall Street in queste settimane, molti analisti sostengono che ogni giorno si guarda agli indicatori economici che vengono dalla Cina e dall’Europa e si cerca di bilanciare gli acquisti e le vendite o lo stesso bouquet di titoli da proporre ai clienti, così i valori di Borsa oscillano guidati dalle scommesse sull’Asia o sul Vecchio Continente. Attendendo che si faccia chiarezza sulla direzione di marcia dell’Obama bis in termini non solo economici, ma anche in politica estera, perché le due componenti sono collegate strettamente in èra di globalizzazione. Una iperottimista Goldman Sachs prevede che l’indice Standard & Poor’s dei maggiori 500 titoli salga dall’attuale 14.000 a quota 15.000 e oltre, invitando a comprare azioni. Sia le aspettative sia i comportamenti cambieranno in meglio se l’Amministrazione Obama riuscirà a evitare che scatti il taglio automatico alle spese e l’aumento delle aliquote sui redditi più elevati, interrompendo i benefici decisi da George W. Bush (da lui confermati nel primo mandato).
In ogni caso, oggi l’economia americana ha i fondamentali più solidi rispetto a prima della crisi. Gli Stati Uniti mantengono il loro primato tecnologico nei confronti dell’Europa e della Cina. La terza rivoluzione industriale è in corso e parte dal mondo anglo-americano, ancora una volta. La migliore delle economie possibili? Certo che no. E nessuno oserà più dire che non ci saranno nuove crisi in futuro, e di grande portata. La macchina dello sviluppo sbufferà ancora un po’, però si è messa in moto ed è una macchina a stelle e strisce.

Fonte: Il Foglio del 6 dicembre 2012

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