di Giuseppe Pennisi
Tutti hanno contezza dell’inflazione macro. Molti hanno dimestichezza con l’inflazione micro che si attiva in alcuni mercati. Pochi conoscono quella mini. Eppure, basta leggere le bollette
Siamo alla vigilia di un cambiamento di politica monetaria, ove non di politica economica? Segnali di fumo in questo senso arrivano dagli Stati Uniti dove all’ultima conta il tasso di aumento dei prezzi al consumo viaggia al 6,2% l’anno. La riconferma di Jerome Powell alla guida dell’autorità monetaria federale sarebbe un’indicazione ed aumentano le voci in Congresso favorevoli ad un ridimensionamento del maxi-programma di investimenti pubblici voluto da Joe Biden per il timore che l’aumento della domanda aggregata (stimolata dal programma) possa attizzare ulteriormente l’aumento dei prezzi.
Dato che una delle determinanti dell’aumento sono i corsi delle materie prime (in particolare delle fonti di energia), gli Stati Uniti hanno deciso di mettere sul mercato 50 milioni di barili di greggio delle loro riserve strategiche. Il Giappone e la Corea hanno preso misure analoghe (anche se, ovviamente, di portata più limitata). La Cina, il maggior importatore mondiale di petrolio, non ha né aperto bocca né alzato foglia. C’è stato un leggero ribasso dei prezzi del greggio. Tuttavia, proprio la sera (ora italiana) del 23 novembre, il Bureau of Economic Analysis del Governo federale ha
annunciato che la “core inflation” (ossia l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie. Depurato da energia ed alimentari) viaggia al 4% l’anno, l’aumento mensile più alto degli ultimi trent’anni.
I miei amici a Washington (dove ho vissuto più di tre lustri) mi dicono che la Federal Reserve sta per ridurre gli acquisti mensili di titoli di Stato e si sta preparando ad alzare i tassi d’interesse verso la metà del 2022. Nonostante le parole tranquillizzanti della sempre sorridente ed elegante Christine Largarde (Presidente della Banca centrale europea – Bce), le autorità monetarie della zona dell’euro non potranno restare inermi, se quelle americane aumentano i tassi. Con implicazioni serie per Paesi, le cui pubbliche amministrazioni sono fortemente indebitate (quella italiana ha uno stock di debito attorno al 150% del Pil) e devono ricorrere al mercato internazionale per finanziarlo (quella italiana per un terzo circa).
Il Premio Nobel Paul Krugmann ha accusato con un articolo apparso su giornali di tutto il mondo (ad es. sul New York Times del 23) che è la stampa i giornalisti con le loro analisi approssimative e i redattori capo che sbattono “il mostro” – ossia l’inflazione – in prima pagina. Grande rispetto per Krugmann: anni fa, un’analisi della Scuola Nazionale d’Amministrazione (Sna) relativa alla fase di transizione dalla lira all’euro (analisi pubblica in un libro del 2005 disponibile presso la Sna) concluse che enfasi mediatica ha implicazioni solo di breve periodo sui prezzi di alcune merci e servizi.
Krugmann ci porta a ricordare che ci sono tre tipologie distinte di aumenti dei prezzi che in questa fase si accavallano: quella macro, quella micro, e quella minimicro o bikinimicro (speso utilizzata dai “furbetti dell’inflazione”, sovente annidati nei gestori dei servizi di pubblica utilità).
Tutti hanno contezza dell’inflazione macro (da domanda o da costi o da tutti e due). Molti hanno dimestichezza con l’inflazione micro che si attiva in alcuni mercati (oggi le materie prime, all’inizio di questo secolo l’edilizia residenziale) e, per un periodo più o meno lungo ne contagia altri (come avvenne, ad esempio, a quella nata nell’immobiliare all’inizio del secolo).
Pochi conoscono quella mini o bikini, attizzata da “furbetti”. Eppure, basta leggere le bollette, ad esempio quelle elettriche (quale che sia il gestore di riferimento). Pochi lo fanno anche perché le hanno “domiciliate in banca” ed oltre alla sintesi nella prima pagina hanno diverse pagine di dettagli che nessuno, neanche la proverbiale “massaia di Vigevano” legge ma che i lettori di Formiche.net dovrebbero studiare con cura.
In breve, il costo delle materia prime incide sul 25%-30% sui costi della produzione di energia elettrica in Italia; quindi l’andamento dei “corsi” dovrebbe causare un aumento non più dell’8% della bolletta. Ma i gestori sovente aumentano anche le voci spesso denominate “spese organizzative (distribuzione, gestione del contatore, oneri di sistema)” spesso di pari passo con i “corsi” delle materie prime, aumentano, quindi, le accise e l’Iva applicata (non si capisce perché) pure alle accese. Non aumenta il canone Rai anche se è difficile capire perché si paghi (la Rai ha pubblicità come le altre emittenze televisive) e perché lo si paghi in bolletta elettrica. É prassi di tutti i gestori.
I consumatori tacciono e l’antitrust (a guida pentastellata) dorme, anche potrebbe essere il caso di rivitalizzare i meet up di un tempo.
Fonte: da Formiche del 24/11/2021