Mario Draghi ha fatto bene giovedì a non mettere subito le sue carte sul tavolo: una riduzione dei tassi, una nuova linea di finanziamento alle banche o altre misure meno convenzionali di credito alle piccole e medie imprese. Ha fatto bene non perché l’euro-area non abbia necessità di tutto ciò, ma perché potrebbe averne ancor più bisogno nei prossimi mesi.
Il 2014 infatti sarà segnato dalla sfida non priva di rischi dell’unione bancaria. Un anno e mezzo fa i governi Ue, incapaci di realizzare una vera unione fiscale, hanno dato vita a un percorso di centralizzazione della supervisione bancaria in capo alla Bce. In base al mandato, la Bce è riuscita nel notevole compito di istituire un processo attraverso il quale giudicherà la solidità di 130 banche, corrispondenti all’85% del mercato dell’eurozona. Dal novembre prossimo il “giudizio complessivo” della Bce costringerà quelle banche a risanarsi attraverso ristrutturazioni e ricapitalizzazioni. Sarà un passaggio decisivo: un sistema del credito funzionante è la premessa per uscire dalla crisi in corso.
Gli Usa lo avevano capito prima degli europei. Le migliori fortune dell’economia americana, dal 2009 a oggi, rispetto alle difficoltà europee, sono dovute al fatto che gli Usa hanno scelto la sequenza giusta delle politiche: hanno cioè dapprima rimesso in piedi le banche per far ripartire l’economia, rinviando a tempi successivi la soluzione della crisi fiscale. L’Europa ha dovuto fare il contrario: concentrandosi sul rigore fiscale ha affidato la crescita al solo stimolo monetario, il quale tuttavia non poteva raggiungere l’economia proprio perché il sistema bancario era troppo insicuro per erogare credito.
Affrontare ora il problema, non significa far nascere il 2014 sotto una costellazione benevola. Proprio il processo di ripulitura dei bilanci bancari significa che sarà un anno difficile. Deutsche Bank calcola che una volta definite le “partite deteriorate”, alle banche europee mancheranno 44 miliardi per rispettare i criteri di stabilità patrimoniale. La somma scende a 16 miliardi se si tiene conto di ricapitalizzazioni e vendite degli attivi. Ma proprio questo necessario processo di pulizia renderà il credito più scarso e prevedibilmente mal distribuito da Paese a Paese, finendo per accentuare quei rischi sovrani che l’unione bancaria, una volta in atto, eviterà.
Per contrastare eventuali turbolenze di assestamento dell’unione bancaria la Bce ha una munita artiglieria. Erogazione diretta del credito, nuove immissioni di liquidità condizionate ai prestiti all’economia, tutto dovrà essere disponibile nel caso in cui i ministri finanziari non provvedano in tempo a migliorare l’architettura attuale dell’unione bancaria. L’Eurogruppo ha infatti in agenda diverse decisioni da prendere il 9 e il 19 dicembre. La prima riguarda la riallocazione di parte dei fondi strutturali Ue verso la Bei che (con una leva di cinque o dieci) potrà dirigerli da gennaio verso le piccole e medie imprese dei Paesi aderenti. Ma entro fine anno dovranno soprattutto essere conclusi i lavori per il Meccanismo unico di risoluzione, con l’autorità relativa e col fondo unico di risoluzione. Le aspettative sono basse in ragione delle resistenze nazionali. Le banche tedesche chiedono a Berlino di frenare. Il compromesso prevedibile è che il Meccanismo riguardi solo le 130 banche vigilate dalla Bce e che tutto il resto sia coperto da fondi nazionali per un periodo troppo lungo: dieci anni, fino cioè a quando non sarà costituito un fondo di risoluzione con i contributi delle banche.
Gran parte dei problemi d’altronde nasce dal peccato originale che ha caratterizzato l’unione bancaria: essere intesa non nel contesto di un’unione fiscale, ma come un suo sostituto o al più una sua premessa. In tal modo la naturale componente fiscale dell’unione bancaria è stata ridotta al minimo. Anziché usare fondi comuni si è andati verso il coordinamento dei fondi nazionali. Il dubbio è che se una banca verrà salvata da fondi solo nazionali potrà evitare la sorveglianza diretta della Bce, restare all’interno dell’intreccio di interessi finanziari e politici che influenzano i supervisori locali. Un precedente controverso è già stato fissato con l’esclusione dalle 130 banche soggette a vigilanza comune della Sparkasse Koeln-Bonn, perché salvata da fondi solo nazionali.
Lungo dieci anni le diverse culture giuridiche (e quelle meno nobili) che condizionano i controlli nazionali rischiano di rafforzarsi. La Bce dovrà condurre una battaglia durissima per imporre pratiche che rispettino l’orientamento europeo dei testi giuridici. Il rischio inoltre è che i Paesi con le finanze solide potranno continuare a salvare le loro banche con soldi pubblici e mantenendo il credito in condizione di subordinazione rispetto alla politica, mentre gli altri Paesi dovranno reperire le risorse del risanamento delle banche colpendo (bail-in) obbligazionisti e depositanti, che spesso coincidono se le banche, come succede in Italia, scaricano sul depositante le loro stesse obbligazioni. Se le logiche nazionali prevalessero, la rischiosità delle banche e la loro capacità di patrimonializzarsi cambierebbe da Paese a Paese proprio in ragione del rischio sovrano. La segmentazione del sistema bancario europeo non diminuirebbe, né la connessione tra rischio sovrano e rischio bancario.
Le armi Bce per l’Europa del credito
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