di Bruno Costi
Ora che l’invasione russa dell’Ucraina ha dimostrato quanto stupido sia stato rinunciare all’indipendenza energetica dell’Italia dall’estero in nome del “no” al nucleare e di un ottuso ambientalismo, auguriamoci di recuperare rapidamente il tempo perduto, prendendo esempio proprio dalla terribile esperienza della pandemia .
Cosa c’entra la pandemia?
C’entra eccome, perchè così come la rapida ed imprevista pandemia ha messo a nudo la fragilità della rete sanitaria territoriale, la scarsità di medici, infermieri e politiche di prevenzione generando ora nuove sensibilità e forti investimenti nella salute pubblica, così il ricatto energetico di Putin verso l’Italia, che acquista dalla Russia il 40% del gas ed il 15% del petrolio, può svegliare il Paese ed indurlo finalmente a rimuovere gli ostacoli politici e culturali che finora hanno bloccato il cammino del nucleare e di sviluppare fonti geograficamente alternative di approvvigionamento energetico.
Ci riusciremo? La probabilità che la risposta sia positiva dipende da quanto aumenterà il peso delle bollette sulle famiglie, da quanti disoccupati creerà l’industria messa fuori gioco dai rincari dell’energia e dall’inevitabile rincorsa tra prezzi e salari per recuperare l’erosione dei salari a causa dell’inflazione, jatture che potranno arrivare di qui a pochi mesi. E poiché è assai probabile che tutto ciò accadrà, forse saremo davvero costretti a cambiare anche le scelte energetiche del Paese, se non vogliamo aggiungere al danno di pagare più cara l’energia anche la beffa di non far nulla per evitarlo.
Ma attenzione: se qualcosa cambierà da questo punto di vista, il Paese se ne accorgerà fra anni. E nel frattempo? Da chi dovrebbe arrivare la risposta? Dal Governo? Dal Parlamento? Dall’Eni , dall’Enel?
Certamente saranno anche questi soggetti a doverla confezionare ma c’è qualcosa che va oltre e che richiama una dimensione geopolitica più ampia.
Gli “osanna” e i “mea culpa” della globalizzazione
Vale al pena ricordare che dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, l’Occidente prima e il mondo poi hanno adottato gradualmente ma inesorabilmente un approccio meno ideologico e più mercantile al governo dell’economia.
Prima con la libertà di circolazione graduale dei capitali, poi delle merci e delle persone, ed ancora più avanti con la progressiva liberalizzazione dei commerci mondiali e l’abbattimento graduale ma progressivo e asimmetrico di molti dazi doganali in sede di WTO, l’ispirazione di fondo è stata quella di utilizzare la globalizzazione come strumento per accrescere la ricchezza mondiale, includere e arricchire anche economie emergenti aprendo ad esse i mercati internazionali.
E gli effetti si sono visti: negli ultimi trent’anni tre miliardi di persone sono entrate nel circuito della produzione e della distribuzione della ricchezza da cui erano prima escluse; dal 1980 al 2002 la quota di esportazione dei paesi emergenti è passata dal 20 al 70% e, grazie alle delocalizzazioni di aziende, i Paesi in via si sviluppo sono diventati la fabbrica del mondo. Ma si è trattato di una globalizzazione senza regole e senza limiti che ha prodotto, non solo disuguaglianze stridenti, ma anche la convinzione “mostruosa” di pensare che le autocrazie del mondo avrebbero giocato con le stesse regole delle democrazie del mondo.
L’idea che il mercato, cioè il luogo in cui il gioco tra domanda ed offerta trova il suo equilibrio nella fissazione del prezzo, sarebbe diventato il luogo nel quale trovare equilibri anche politici e non solo economici ha annebbiato le menti anche più attente, ed oggi che Putin utilizza i meccanismi del mercato, cioè il prezzo dell’energia dovuto alla scarsità del gas, per mettere in ginocchio il mercato e gli avversari occidentali di sempre, fa temere la realizzazione della profezia di Marx quando disse che sarebbe stato il Capitalismo a fornire al proletariato la corda alla quale sarebbe morto impiccato.
Le 4 regole per impedire la prepotenza delle autocrazie
Ciò non significa, naturalmente, che il mondo debba rinunciare alla globalizzazione dei mercati ma significa che in futuro occorrerà pensare di regolamentarlo; e significa anche che l’accesso al mercato globale dovrà essere consentito solo a quei paesi che accettano di competere con le stesse regole degli altri. E, tra queste, almeno quattro:
1. il rispetto del diritto internazionale affinchè nessuno possa godere dei vantaggi del libero mercato per finanziare espansioni geopolitiche di autocrazie a danno delle democrazie;
2. il rispetto dei diritti umani, affinchè nessuno possa sfruttare lavoro minorile o perseguitare minoranze etniche o religiose per trarne vantaggi di competitività;
3. il rispetto della reciprocità del trattamento economico delle imprese, affinchè nessuno possa penetrare nei mercati altrui chiudendo i propri;
4. infine, il rispetto del lavoro umano, affinchè nessuno possa discriminare la componente femminile o fare dumping sociale.
Se regole come queste avessero regolato la liberalizzazione degli scambi commerciali consentita dalla globalizzazione, non avremmo avuto la protervia della Russia di un Putin che invade lo stato sovrano dell’Ucraina e nemmeno la sorniona aggressività della Cina di un Xi che per ora e sta alla finestra solo per capire quando fare altrettanto con Taiwan.
(www.clubeconomia.it del 24 febbraio 2022)
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