• venerdì , 22 Novembre 2024

Le 120 ore in barella della paziente vecchietta

Un tempo l’ orgoglio di un Paese si misurava dal parametro dei suoi servizi pubblici. Il Servizio sanitario nazionale era in Italia tra quelli che ci assicuravano maggior prestigio internazionale. Oggi certi dati è meglio nasconderli. Non si attendano, però, il nostro facile sostegno quanti alimentano campagne di stampa contro i medici costringendo la cura dei malati ad un ruolo sempre più difensivo. Domina, per contro, la disdicevole preoccupazione di incorrere in qualsivoglia errore impedendo in partenza di agire: si evitano interventi che possono risultare potenzialmente azzardati. E’ evidente che ne risulta una “medicina difensiva” a misura più della prudenza del sanitario che dell’ uso accorto delle terapie a disposizione. La resistenza, finora interposta, alla introduzione di un sistema di assicurazioni che garantisca i medici e le strutture sanitarie dai possibili errori oggettivi costituiscono un ulteriore freno ad un miglioramento responsabile del governo medico. Di questo e di molto altro si è parlato nelle cronache dei quotidiani romani, tramutatisi in bollettini di malasanità e ripresi in recenti assemblee di medici del Pronto soccorso e della Medicina d’ urgenza, in gran parte dipendenti dal San Camillo, il più vasto nosocomio romano e da altri ospedali dove recentemente i servizi di accettazione si sono trovati investiti da criticità non certo addebitabili al personale sanitario ma ai ripetuti tagli che hanno colpito ovunque i servizi sociali, alla crisi che investe tutta la sanità pubblica, alla drastica riduzione dei posti letto. Ci rendiamo conto che dicendo queste cose ripetiamo ormai quasi meccanicamente frasi fatte, inadatte a suscitare speranze di ripresa. Eppure nelle assemblee cui abbiamo assistito spirava un’ aria di assunzione consapevole di responsabilità e di protesta organizzata quale da tempo non si registrava. Si è arrivati a firmare un documento unico con la direzione generale, con l’ intento, temiamo mal riposto, di coinvolgere anche la Regione. Il continuo ricorso a contratti atipici,unitamente all’ esodo pensionistico del personale verificatosi negli ultimi anni hanno provocato profonde carenze negli organici. Il numero di medici precari costretti a lavorare in perduranti condizioni di instabilità, con paghe di vergogna, che in qualche caso arrivano a 5 euro l’ ora, hanno allontanato sempre più gli standard italiani da quelli europei. Ho sentito con le mie orecchie citare il caso di una paziente ottantenne costretta in barella per 120 ore, per mancanza di letto. Si ripete, ed è vero, che mancano soldi ma quanto si spreca in convenzioni trattate in condizioni clientelari di favore? Perché un pasto in convenzione costa 22 euro, più che al ristorante? Perché il cosiddetto “lavanolo” (il lavaggio della biancheria) è concentrato tutto a Reggio Emilia? Perché su 2.500 infermieri ne risultano 360 non utilizzabili per ragioni fisichee non vengono spostati a funzioni più consone? Il direttore generale ha ribadito lo slogan “Aprire l’ ospedale al territorio e il territorio all’ ospedale”. Se questa frase ha un significato essa va decrittata nella sua verità: aprire l’ ospedale significa assicurare l’ accoglienza del Ps, abolendo le lunghe attese per essere diagnosticati e per essere ricoverati (oggi in media 25 pazienti restano in barella per l’ intera giornata). Non vale la scusa che le strutture ospedaliere vengono così utilizzate per interventi di elezione o per attività ambulatoriali, al contrario se l’ ospedale è il luogo per l’ assistenza alle acuzie le sue risorse andrebbero concentrate a questo fine e le altre scelte finanziate distogliendole da quelle impropie. Come oggi invece avviene.

Fonte: Repubblica del 21 maggio 2012

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