• mercoledì , 25 Dicembre 2024

Lavoro e produttività, anche Draghi cade nella trappola dei luoghi comuni

Solitamente il Governatore di Bankitalia, quando interviene in un convegno o in qualunque altra circostanza, parla ex cathedra. Questa volta, nel suo discorso ad Ancona, non ci ha convinti del tutto.
Il Governatore ha ricordato che la crescita del prodotto per abitante in Italia “si va riducendo da tre decenni: siamo passati da un aumento annuo del 3,4% negli anni ’70 a uno del 2,5% negli anni ’80, dell’1,4% negli anni ’90 fino alla stasi dell’ultimo decennio”. Nel confronto con gli altri paesi europei, Draghi ha quindi evidenziato come nei primi dieci anni dell’Unione Europea (1998-2998) il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 24% in Italia, del 15% in Francia, mentre “è addirittura diminuito in Germania”. Divari – ha argomentato il Governatore – i quali riflettono “i diversi andamenti alla produttività del lavoro. Nel decennio citato questa è aumenta del 22% in Germania, del 18% in Francia e solo del 3% in Italia”.
Per il Governatore i fattori all’origine di tali meccanismi “sono molteplici”, fra cui, citando l’economista Giorgio Fuà, alla cui memoria era dedicato il convegno, “sono simili a quelli che distinguevano il modello di sviluppo tardivo dell’Italia con marcati e persistenti dualismi nella dimensione delle imprese, nel mercato del lavoro”. Proprio la dimensione delle imprese, ha poi affermato Draghi, “rimane ridotta nel confronto internazionale”.
Il Governatore non ha spiegato quali siano i molteplici fattori a causa dei quali l’Italia soffre di un handicap tanto rilevante in tema di produttività e di costo del lavoro per unità di prodotto. Sicuramente esiste un problema di quantità e qualità degli investimenti. Ma è difficile negare l’incidenza del lavoro in quanto tale, assunto come complesso di regole attinenti all’orario di lavoro, all’utilizzazione degli impianti, all’ampiezza del fiscale e contributivo e all’efficacia del sistema contrattuale e più in generale delle relazioni industriali.
Verrà pure il momento in cui l’assoluta prevalenza delle imprese micro e piccole non sarà più considerato un handicap per la nostra struttura produttiva. Tra i tanti che hanno determinato tale assetto un motivo corrisponde sicuramente all’esigenza avvertita da molti imprenditori di “stare al di sotto”, quanto a numero dei dipendenti, dei limiti sanciti dalle principali regole del lavoro. Non è certamente sana e orientata alla crescita e alla competizione una situazione per cui un normale datore di lavoro si interroga più volte prima di effettuare una nuova assunzione che faccia scattare l’applicazione di uno di quegli articoli dello Statuto dei lavoratori che riguardano una platea sempre più ridotta di lavoratori. Così è più facile che un piccolo imprenditore allarghi il proprio business avviando una nuova attività produttiva (magari anche fuori dei confini nazionali), piuttosto che aumentare gli organici di quella precedente e mettersi tra i piedi il sindacato.
Quest’atteggiamento non significa che i piccoli imprenditori siano chiusi ai problemi dei loro dipendenti con i quali conducono un confronto ed un dialogo quotidiani. Meriterebbe, poi, un chiarimento più puntuale un’altra considerazione di Draghi ad avviso del quale, “senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari” si hanno “effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. Ci risiamo: un po’ poco come terapia. Nelle analisi correnti sugli andamenti del mercato del lavoro c’è un luogo comune che viene ossessivamente ripetuto, al punto da essere accettato anche senza il corredo e il riscontro di dati di fatto: i giovani occupati sono tutti (o quasi) precari. Ed ingrossano le file dei collaboratori coordinati e continuativi, il rapporto di lavoro “maledetto”,per altro sottoposto a radicale trasformazione dalla legge Biagi.
Se si esaminano, invece, le indicazioni di carattere statistico della Gestione dei parasubordinati presso l’Inps (la quale, pur con tutti i suoi limiti, è la sola banca dati credibile e aggiornata, nonché l’unico punto d’aggregazione di questa particolare tipologia di lavoratori) ci si accorgerebbe che la realtà è molto diversa da quanto comunemente si ritiene.
Il numero dei giovani occupati con contratti di collaborazione è, infatti, inferiore rispetto a quelli che entrano nel mercato del lavoro con rapporti a contenuto formativo o, comunque, con contratti di inserimento lavorativo che sono indubbiamente i percorsi preferenziali per conseguire, in tempi ragionevoli, l’obiettivo della stabilizzazione del rapporto di lavoro. Stabilizzazione per la quale non basta l’applicazione di norme di irrigidimento del mercato del lavoro, come il governo di centro sinistra ha tentato di fare nella passata legislatura.
Le norme non creano posti di lavoro; talvolta li distruggono. La buona occupazione (al pari di quella cattiva) non è garantita dalle leggi, ma dalla buona economia. Anche la piaga del lavoro sommerso è in gran parte conseguenza di un inadeguato sviluppo che non consente all’apparato produttivo, in tante aree del Paese, di attenersi ad ordinamenti forzatamente uniformi.
Così, quando sostiene che la precarietà del lavoro è destinata ad entrare in contraddizione con l’esigenza di conseguire una maggiore produttività e che è necessario, quindi, porsi il problema di una stabilizzazione (che cosa esprime il concetto di “stabilizzazione”?) pur graduale dei giovani, il Governatore non immagina certo che quest’auspicabile obiettivo possa essere conseguito attraverso l’introduzione di vincoli normativi e di rigidi divieti nei confronti delle regole della flessibilità che hanno sbloccato il mercato del lavoro e consentito, prima della crisi economica, un trend continuo di incremento degli occupati.
Ma è sicuro di non essere frainteso?

Fonte: Occidentale 8 novembre 2011

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