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Lavorare di più? Giusto, ma non basta

Alla crescita servono più lavoro ma soprattutto più innovazione.
Prima Di Vico, poi Marcegaglia, adesso persino il Nobel Krugman. Si allunga e s’impreziosisce la lista dei sostenitori della tesi che il problema della nostra economia è che lavoriamo poco. A parte il tirare a campare di molti sfaccendati, ma ci sono troppi “ponti”, vacanze estive lunghe e non scaglionate, il lusso di venti giorni tra Natale e l’Epifania che nessuno al mondo si consente. E adesso ci si mettono anche i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia (il 17 marzo, pericolosamente di giovedì). Ora, è vero che la produttività del lavoro in Europa è più bassa che negli Stati Uniti, e che nel Vecchio Continente l’Italia è assai distante da Francia e, soprattutto, Germania. Ed è altrettanto vero che il numero dei giorni effettivamente lavorati in un anno è uno degli elementi che determinano il livello di quella produttività. Non solo, il combinato disposto tra minor numero di ore lavorate e maggior costo del lavoro (non per le retribuzioni, che sono mediamente basse, ma per gli oneri che gravano sul lavoro) è uno dei fattori, se non il primo, che ci rendono poco competitivi nello scenario dell’economia globale. Insomma, tutto fa pensare che se s’intervenisse su questi punti, l’Italia potrebbe crescere di più. Ma è vero solo in parte. Anzi, insistere solo sul tasto del lavoro (il suo costo, la sua durata, la sua produttività oraria) rischia di essere addirittura controproducente. Mi spiego. Il nodo vero dell’economia italiana, quello che spiega perché nell’ultimo decennio il pil è cresciuto mediamente solo dello 0,53% annuo, e negli anni Novanta solo dell’1,42% annuo, contro una cresciuta nei due decenni precedenti del 2,55% (anni Ottanta) e del 3,9% (anni Settanta), è il profilo del suo capitalismo, inadeguato dopo quelle rivoluzioni epocali che sono cominciate una ventina d’anni fa (globalizzazione, tecnologia digitale, finanza, euro) e che hanno spostato l’asse portante dell’economia mondiale verso l’Asia. Cioè verso quei paesi emergenti la cui capacità di competere deriva fondamentalmente dal lavoro (più ore e a basso costo). Ora, credere che le chance dell’Italia stiano solo, o anche principalmente, nel lavorare di più con un costo aziendale del lavoro minore, significa illudersi. Perché è giusto assumere coscienza che fare meno vacanze e impegnarsi maggiormente è necessario, non fosse altro perché si sgombra il campo dall’idea malsana che tutto va bene e che se c’è qualcosa di storto la colpa è altrui. Ed è non meno giusto che il governo debba creare le condizioni (che oggi non ci sono) per ridurre gli oneri sul lavoro a carico delle imprese e dei lavoratori stessi. Ma rimboccarsi le maniche non basta. Ci vuole un altro modello di sviluppo, che, aumentando la dimensione delle imprese, cambi il mix di attività che producono la ricchezza nazionale, oggi fatta per il 30% da un manifatturiero in gran parte povero di tecnologia e per il 70% da servizi tendenzialmente a basso valore aggiunto. Più hi-tech, più innovazione di processo e di prodotto, più creatività, più attività non delocalizzabiliì (come il turismo, specie quello artistico-culturale). E meno produzione labour intensive, dove il costo del lavoro è ancora la variabile che più incide sul conto economico. Allora sì che lavorare di più fa bene all’economia.

Fonte: Messaggero del 6 febbraio 2011

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