• giovedì , 14 Novembre 2024

L’articolo 18 tra fatti e propaganda

Il fatto che in una situazione economica drammatica come quella che stiamo vivendo si senta il bisogno di riaccendere lo scontro sociale tentando di nuovo l’affondo contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è quantomeno stupefacente. Conviene ricapitolare di che cosa si sta parlando, perché c’è il rischio, nel tourbillon delle polemiche, di dimenticare l’esatto motivo del contendere.
Chi dice che “in Italia non si può licenziare” mente sapendo di mentire. L’articolo 18 vieta esclusivamente i licenziamenti individuali, cioè di quella particolare persona, “senza giusta causa o giustificato motivo”. Qualora ciò avvenga si può ricorrere al giudice del lavoro che, se non riscontra la giusta causa, dispone il reintegro nel posto di lavoro; altrimenti il licenziamento resta valido. Nei ruggenti anni ’70 i magistrati tendevano a dar quasi sempre ragione al lavoratore, anche contro l’evidenza dei fatti (colpa comunque non della norma in sé, ma di come era applicata). Ma l’aria è cambiata da un pezzo, tanto nel paese che tra i magistrati, e oggi l’esito di queste cause non è affatto scontato. Quindi, licenziare una persona si può,se ci sono giusta causa o giustificato motivo.
Lo Statuto dei lavoratori si applica soltanto nelle aziende che abbiano più di 15 dipendenti, quindi riguarda circa la metà dei lavoratori dipendenti. E’ stato affermato più volte, in passato, che questo costituisce un freno alla crescita dimensionale delle imprese, che è uno dei problemi della nostra economia. E’ semplicemente falso: se così fosse, si dovrebbe riscontrare una discontinuità nel numero delle aziende per classe dimensionale, con un addensamento appena sotto i 15 dipendenti (quelle che “non crescono” per non ricadere nell’applicazione dello Statuto). Invece nessun dato conforta questa affermazione. Quanto ai licenziamenti per motivi economici – cioè perché l’azienda è in difficoltà – si possono fare eccome, come tutti purtroppo hanno potuto constatare specialmente da quando è scoppiata questa ultima crisi.
Uno degli argomenti più singolari in favore dell’abolizione, che l’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato aveva all’epoca ripetuto più volte, è che “se un imprenditore scopre che la moglie lo tradisce con un suo dipendente non ha la possibilità di licenziarlo”. Ora, delle due una: o questi casi sono frequenti, e allora forse gli imprenditori dovrebbero fare più attenzione a chi sposano, oppure, come sembra più probabile, qualche caso del genere sarà pure accaduto, ma non si vede perché qualche evento casuale e sporadico dovrebbe essere ritenuto sufficiente per eliminare una norma che garantisce tutti rispetto a una cosa assai più seria, come l’eventuale arbitrio del datore di lavoro.
Ma al di là di queste motivazioni folcloristiche, che però testimoniano la pochezza delle argomentazioni degli “abolizionisti”, nessuno ha mai dimostrato perché mai la possibilità del licenziamento individuale andrebbe a favore di chi il lavoro non ce l’ha o subisce la piaga del precariato. Nessuno ha mai spegato perché mai sarebbe questa la via per far aumentare i posti di lavoro.
L’argomento oggi più utilizzato per sostenere l’abolizione è quello del “dualismo” del mercato del lavoro, diviso tra coloro che sarebbero “iperprotetti” e coloro invece che sono privi di tutte o quasi le protezioni. In quest’ultima condizione si trova la maggioranza dei giovani, il che permette di sostenere un’altra tesi insensata, e cioè che le garanzie conquistate dai padri vanno a scapito dei figli.
Si tratta, appunto, di nient’altro che pessima propaganda. A prescindere dal fatto che, come si è ricordato, circa la metà dei dipendenti non è coperta dallo Statuto dei lavoratori (e certo non sono tutti giovani), c’è un motivo molto semplice per la prevalenza tra i giovani delle forme di contratto precarie: la “Legge Treu”, ossia il primo pacchetto di norme che ha introdotto varie tipologie di contratti diverse da quello fino ad allora standard, ossia il contratto a tempo indeterminato, è relativamente recente, del 1997. Le tipologie sono state ulteriormente aumentate dalla legge 30 del 2003 (quella impropriamente definita “Legge Biagi”: altro colpo propagandistico). Da allora sono state utilizzate prevalentemente queste forme contrattuali, ed è ovvio che vi siano incappati coloro che entravano sul mercato del lavoro, appunto i giovani.
Ma perché questi nuovi contratti (che sono un numero abnorme: ben 46, come ricorda la Cgil) sono così tanto preferiti al vecchio? Il primo e più importante motivo è che costano molto meno. In molti casi non si ha diritto a ferie, e nemmeno alla malattia. Il carico contributivo, che per i contratti a tempo indeterminato è all’aliquota del 33%, per questi contratti all’inizio era addirittura al 10, e poi negli anni è stata progressivamente aumentata ed è arrivata (dal 2010) al 26,72%, comunque ancora meno di quella standard. Ovviamente, essendo tutti contratti a termine, consentono la massima flessibilità nell’uso della forza lavoro senza alcun problema né normativo né economico.
Questi “contratti senza diritti” hanno favorito o no un boom dell’occupazione? Proviamo ad esaminare qualche dato. Tra il ’97 e il 2008 (inizio della crisi e massimo storico dell’occupazione) gli occupati sono cresciuti di 3,225 milioni. Ricordiamo che gli “occupati”, secondo la definizione Istat (dalle cui serie storiche sono stati estratti questi dati), sono coloro che hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuito nella settimana della rilevazione. Prendiamo un altro periodo di 11 anni, cominciando dal 1970, anno di entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori: tra il ’70 e l’81 l’aumento è stato di 1,425 milioni, meno della metà. Naturalmente stiamo valutando questa variazione alla luce di una sola variabile, quella dei cambiamenti contrattuali (e peraltro solo i più rilevanti) senza considerare tutti gli altri aspetti della congiuntura che possono aver pesato. Ma insomma, se si afferma che il problema più serio è l’articolo 18, almeno per avere un’idea è legittimo farlo.
Confrontiamo ora un altro dato, le unità di lavoro. In questa definizione le posizioni lavorative a tempo parziale, principali o secondarie, sono aggregate in modo da formare posizioni a tempo pieno. Quindi si conta, in questo caso, quanti posti di lavoro a tempo pieno ci sono. Dal ’97 al 2008 le unità di lavoro sono aumentate di 2 milioni e 268.000. Ma la “tara” di questa cifra è costituita innanzitutto dalla grande ondata di regolarizzazione degli immigrati (circa 700.000); e poi si può supporre che sia stata in questo modo regolarizzata una qualche quantità di lavori che altrimenti sarebbero rimasti in nero: effetto non disprezzabile ma certo non una svolta epocale. Vediamo ora cosa è successo tra il ’70 e l’81. Le unità di lavoro sono aumentate di 2 milioni e 110.000: quasi la stessa quantità, e senza regolarizzazioni di immigrati, nonostante l’entrata in vigore del “terribile” articolo 18.
Che cosa se ne può concludere? Che i 46 nuovi tipi di contratti “precari” non hanno generato una creazione di posti di lavoro (quelli li crea la crescita, non le regole contrattuali), ma hanno solo sparpagliato su più persone pezzi di lavoro peggio retribuito ed assistito.
Ma almeno, questo grande aumento della flessibilità nell’uso del lavoro è andato a vantaggio della competitività? Anche in questo caso la risposta è negativa, come tutti sanno. Peraltro, è anche noto che la produttività delle imprese è direttamente correlata alla loro dimensione, ossia sono le più grandi ad essere più produttive. Le più grandi: ossia quelle in cui si applica lo Statuto dei lavoratori con il suo bravo articolo 18. Il che dovrebbe far venire per lo meno qualche dubbio sul fatto che l’uso del fattore lavoro sia l’elemento determinante rispetto a produttività e competitività.
E dunque: è giustissimo proporsi di eliminare il dualismo del mercato del lavoro, ma non è stato finora avanzato un solo motivo valido a sostegno del fatto che ciò debba avvenire riducendo i diritti di quella parte che li ha ottenuti con un lungo e travagliato processo storico. L’unico motivo a cui si può pensare è – non a caso – non detto. Che cioè la libertà di licenziamento possa servire per liberarsi progressivamente dei lavoratori più anziani (quelli stessi a cui si è appena elevata l’età di pensionamento), che hanno il difetto di aver maturato retribuzioni mediamente più elevate, assumendo al loro posto i giovani “a basso costo”. Se è così si capirebbe che cosa voglia effettivamente dire che “la protezione dei padri toglie il lavoro ai figli”. Ma certo l’impatto psicologico è un po’ diverso.
C’è comunque in tutto questo un altro fattore davvero singolare. Non è mai stata la Confindustria – tranne ai tempi del berlusconiano D’Amato – a guidare la crociata contro l’articolo 18. Questo è un tema caro alla cultura di destra, con l’appoggio di alcune personalità che, pur collocandosi nello schieramento di centro-sinistra, di quella cultura hanno evidentemente subito l’egemonia. Anche questo dovrebbe far sorgere qualche dubbio sulla rilevanza per l’economia dell’articolo 18. Si spera che il governo dei tecnici rifletta bene prima di impegnarsi in questa battaglia.

Fonte: Repubblica.it del 20 dicembre 2011

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