di Fabrizio Onida
Il prossimo ritorno di Trump alla Casa Bianca sta già lasciando tracce profonde sugli scenari di vera o presunta “deglobalizzazione “con cui il mondo, e in particolare l’Europa, si confronteranno nel prossimo futuro. Sono chiari segnali di cambiamento di rotta gli annunci di maggiori dazi sulle importazioni statunitensi e di freno alle migrazioni dal Messico e dal Sud America.
Qui mi concentro su dazi e politiche del commercio estero.
Con un briciolo di ottimismo, s periamo che l’annunciata imposizione di dazi americani fino al 60% sulle importazioni dalla Cina e del 10-20% sull’import dal resto del mondo sia solo una base negoziale che preluda al rilancio della Wto come sede di controversie ad ampio spettro. Controversie che includono i dazi Usa-Ue su acciaio e alluminio ma soprattutto le guerre sui sussidi. Quanto ai sussidi, allo strascico della antica contesa Airbus-Boeing ormai si somma il recente confronto su veicoli elettrici e batterie nelle pieghe dell’IRA (Inflation Reduction Act). Resta sullo sfondo la paralisi del tribunale d’appello della Wto imposta da Trump-1 (e prolungata da Biden). Per ora si delinea comunque una netta preferenza della prossima amministrazione americana verso un’agenda di accordi bilaterali, pluri e multi-bilaterali con singoli blocchi di paesi, Una direzione opposta allo spirito originario della Wto, fondato sul multilateralismo come chiave di apertura dei mercati. Ne sono esempio gli accordi Ue-Australia sulle materie prime critiche, con India e Israele sull’import di manodopera istruita e altri ancora.
Viene rievocata la “dottrina Munroe” secondo cui a partire dal 1823 gli Usa appoggiarono la progressiva rottura dei rapporti di sfruttamento coloniale dell’America Latina da parte di Spagna, Francia e Inghilterra per rimpiazzarli con un rapporto di partnership privilegiata con gli Usa, a cominciare da Cuba. Si parla del classico globalismo che potrebbe trasformarsi in una sorta di “continentalismo”, foriero tuttavia di grande confusione, ambiguità e notevoli costi negoziali.
Sui dazi contro la Cina è comunque probabile un ripensamento pragmatico, partendo dalla constatazione che molti traffici con la Cina si stanno mimetizzando dietro accresciute importazioni statunitensi da Messico, Vietnam, Australia e altri paesi orientali. Fenomeno connesso alla rapida espansione degli investimenti diretti cinesi in quei paesi. In una sorta di eterogenesi dei fini, gli Usa si ritrovano con una grande Cina che aiuta quei paesi “ a casa loro”.
Ma soprattutto Trump e i suoi prossimi ministri in carica per la politica commerciale con l’estero, a cominciare dal prossimo US Trade Representative Robert Lighthizer, dovranno tener conto delle potenti armi di rappresaglia di cui dispone la Cina, sotto forma sia di restrizioni autoimposte all’export cinese verso il mondo di materie prime strategiche per la transizione energetica, non facilmente sostituibili da altre catene di fornitura (es. litio, nickel, cobalto, altre terre rare come gallio e germanio), sia di dazi che penalizzano l’accesso al mercato cinese da parte dei prodotti e servizi occidentali.
Guardando al lungo periodo per grandi sintesi, lo storico economista americano Irwin Douglas vede il protezionismo evolversi lungo tre fasi: in una prima fase (dal mercantilismo associato alle guerre dell’Indipendenza fino alla guerra civile) i dazi erano la più importante fonte di tassazione per reggere il bilancio dello Stato; nella seconda fase (fino alla Grande Depressione) diventano la principale fonte di difesa dalla concorrenza altrui, nella terza fase (dopo le due guerre mondiali) diventano uno strumento per ottenere condizioni di reciprocità. Con la sua battuta che “i dazi sono la cosa migliore mai inventata”, Trump non esibisce certo “esprit de finesse” ma cavalca sentimenti molto popolari. Ma non si chiede quanto costosi possano diventare i contraccolpi (tit for tat”) proprio in chiave di reciprocità. Non solo: anche se lontano dalle sue priorità, Trump potrebbe tenere in debito conto che i dazi tendono ad avere un effetto regressivo, in quanto sono le famiglie meno abbienti che spendono una quota maggiore or del proprio reddito sui beni importati a basso costo. Uno studio di K.Clausing e M.Lovely del Peterson Institute for International Economics trova che, se Trump applicasse i dazi previsti (60% o più sulla Cina e 10% sul resto del mondo), il potere d’acquisto delle famiglie più povere verrebbe penalizzato del 4,2%, contro meno del 1% per le famiglie appartenenti al centesimo apicale nella distribuzione mondiale del reddito.
(Sole24Ore 17 novembre 2024)
Fonte: Sole24Ore 17 novembre 2024